I santi sono gli interpreti autentici del Vangelo

Il 16 ottobre scorso sono stati canonizzati da Papa Francesco (insieme al martire José Sánchez del Río, a don José Gabriel del Rosario Brochero, al Vescovo Manuel González García, a don Lodovico Pavoni, a don Alfonso Maria Fusco) due francesi: fratel Salomone (Guillaume-Nicolas-Louis) Leclerq (1745-1792), primo santo martire della Rivoluzione francese, e suor Elisabetta (Elisabeth Catez) della Santissima Trinità (1880-1906).

Il 12 luglio 1790 l’Assemblea nazionale costituente francese approvò la Costituzione civile del clero al fine di modificare i rapporti fra Stato e Chiesa e da questa iniziativa non solo si diede legittimità alla feroce persecuzione ai danni della Chiesa e dei suoi membri, ma biforcò, a livello ecclesiastico, l’appartenenza: da un lato chi resistette, pagando di persona, talvolta anche con la vita; dall’altro chi scelse l’apostasia per ottenere la protezione dello Stato. San Salomone Leclerq, che non giurò fedeltà alla Costituzione, scelse di continuare ad appartenere a Cristo.

La persecuzione della Rivoluzione francese si abbatté anche sull’Istituto delle Scuole Cristiane, fondato da san Giovanni Battista de La Salle: la maggior parte dei membri rifiutò il giuramento allo Stato e pertanto furono cacciati dalle scuole, le loro comunità furono disperse e i Fratelli costretti alla clandestinità. Guillaume-Nicolas-Louis Leclercq, nato a Boulogne-sur-Mer il 15 novembre 1745, era entrato fra i Lassaliani il 25 marzo 1767.

Insegnante ed economo, al momento dello scoppio della rivoluzione era segretario di fratel Agathopn, Superiore Generale. La sua clandestinità, dopo il rifiuto al giuramento della Costituzione civile del clero, si consumò a Parigi. Venne comunque scoperto e catturato: era il giorno dell’Assunta del 1792. Rinchiuso, con molti altri sacerdoti diocesani e religiosi, nel convento dei carmelitani di Parigi, trasformato in carcere, il 2 settembre fu massacrato a colpi di spada insieme ad altri 94 compagni di prigionia.

Pio XI lo beatificò il 17 ottobre 1926 congiuntamente ad altri 191 martiri di quel macabro settembre quando, in nome della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità si compirono efferati eccidi, ben documentati nel libro di Frédéric Bluche, Settembre 1792, logica di un massacro (Septembre 1792. Logiques d’un massacre, Laffont 1986).

Ha dichiarato lo storiografo Pierre Chaunu, sotto la cui direzione lo storico Raymond Secher documentò scientificamente il genocidio vandeano: «La persecuzione religiosa subita dai francesi cattolici durante questo periodo non ha equivalenti nella storia se non le grandi persecuzioni del XX secolo. Di tutte la Rivoluzione francese è stata il modello. La persecuzione religiosa non fu solo persecuzione contro i religiosi, ma una rivolta contro il cristianesimo con il preciso intento di decristianizzare la nazione. La maggioranza dei preti è stata assassinata od espulsa (…) 250 mila vandeani sono stati massacrati perché volevano andare alla messa e restare fedeli a Roma. Le scuole, gli ospedali, tutte le opere sociali della Chiesa vennero soppresse e non furono rimpiazzate che sulla carta. In Vandea tutte le famiglie, tutte le persone presso le quali si trovasse una cappella, un crocifisso o altro furono fucilate, le loro case incendiate (…) Quello che non capisco è perché i cattolici francesi di oggi non siano al fianco dei cattolici perseguitati nella storia e soprattutto sotto la Rivoluzione francese. Il perdono non implica l’oblio e nemmeno la collaborazione con i criminali. Non capisco proprio perché e in nome di cosa si neghi la realtà: in Francia ci sono stati centinaia e migliaia di morti, vittime delle loro convinzioni religiose. Hanno lottato, si sono organizzati, ma sono stati massacrati nella maniera più indegna». (http://www.ilcattolico.it/rassegna-stampa-cattolica/formazione-e-catechesi/la-rivoluzione-francese-ha-provocato-piu-morti-della-prima-guerra-mondiale.html).

Su santa Elisabetta della Santissima Trinità, della quale abbiamo parlato lo scorso 9 marzo

(http://www.corrispondenzaromana.it/elisabetta-della-trinita-verso-la-canonizzazione/), il cattolico e intrepido pittore Giovanni Gasparro ha ultimamente eseguito un dipinto di mirabile fattura (olio su tela, 90 x 70 cm.), dal quale emergono tutti i connotati spirituali e mistici della santità della mistica carmelitana.

Ella è ritratta in preghiera e in contemplazione con un’intensità tale da far dimenticare ogni attaccamento terreno e rivolgere soltanto più il pensiero alla dimensione soprannaturale, trovando ristoro, nonché balsamica pace interiore. L’agitato mondo odierno, foriero di ansia, odio, rancore, rivalità, invidia, esasperata competitività, di orgoglio malsano si inabissa: osservando questo dipinto scaturisce il desiderio di pregare e di contemplare.

Non si potrebbe rappresentare meglio santa Elisabetta della Trinità, che pare ricondurre alle sue parole senza tempo, sgorganti da un’anima libera dalle impurità e ripiena della Trinità, lontana dagli affanni terreni, avvolta negli abiti carmelitani così ben evidenziati, dai quali emergono volto e mani, investiti di luce divina e, inebriata dall’unione con Dio, sembra ripetere ciò che scrisse ad un’amica: «Non sono mai sola: il mio Gesù è là, sempre orante in me, ed io mi unisco alla sua preghiera. Mi fai tanta pena, mia cara Francesca, perché vedo bene che sei infelice e unicamente per colpa tua, te l’assicuro. Stai tranquilla, non ti credo ancora fuori di cervello, ma solo indebolita di nervi e sovraeccitata, e quando sei così, fai soffrire anche gli altri. Ah, se potessi insegnarti il segreto della felicità come il buon Dio l’ha insegnato a me! Tu dici che io non ho né preoccupazioni né sofferenze, ed è vero che sono quanto mai felice, ma se tu sapessi come si può essere del tutto felici pur in mezzo alle contrarietà! Bisogna sempre tenere lo sguardo rivolto al buon Dio. All’inizio, quando si sente tutto ribollire dentro, occorre fare degli sforzi, ma con la pratica della dolcezza, della pazienza e con l’aiuto del buon Dio, si viene a capo di tutto. Bisogna che tu ti costruisca come me una celletta dentro la tua anima (…) Chiedo al buon Dio d’insegnarti tutti questi segreti e ti tengo sempre qui nella mia celletta, fai anche tu altrettanto per me nella tua e così non ci lasceremo mai» (Lettera 179, Alla Signorina Francesca De Sourdon del 25-7-1902).

Santa Elisabetta prega e prega la Santissima Trinità, rappresentata in un corpo unico in basso davanti a sé, alla sua sinistra, dalla parte del cuore: sul capo della candida e luminosissima colomba (lo Spirito Santo), con le ali spalancate, troneggia il triangolo che rappresenta il Padre, circondato dalla corona di spine, stante indicare il Figlio. Non si può che restare rapiti dall’aura mistica che emana la tela, dove la luce della Santissima Trinità e la luce di santa Elisabetta sono un tutt’uno, come lei stessa ebbe a scrivere: «Mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente per stabilirmi in Te, immobile e quieta come se la mia anima fosse già nell’eternità; che nulla possa turbare la mia pace o farmi uscire da Te, mio Immutabile, ma che ogni istante mi immerga sempre più nella profondità del tuo mistero! Pacifica la mia anima, rendila tuo cielo, la tua prediletta dimora e il luogo del tuo riposo (…) O miei Tre, mio Tutto, Beatitudine mia, Solitudine infinita, Immensità in cui mi perdo, mi consegno a Voi come ad una preda. Seppellitevi in me perché io mi seppellisca in Voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra luce l’abisso delle vostre grandezze» (Elevazione alla SSma Trinità).

Un’armonia celestiale si sprigiona dall’opera di Gasparro, dettata dalla preghiera, dalla contemplazione, dall’adorazione e da un ultimo elemento, non certo trascurabile e le sue dimensioni lo dimostrano: le mani oranti di santa Elisabetta della Trinità abbracciano un grande spartito. È l’attributo iconografico che il pittore assegna giustamente alla mistica francese, che fu abile pianista, e lo spartito riprodotto non reca note a caso, bensì riprende la partitura del Gloria Patri di Palestrina.

Nell’ammirare tale capolavoro pittorico si può comprendere visivamente che il Regno dei Cieli non è fuori di noi e non può venire calpestato dagli altri se noi non lo permettiamo: «non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo» (Mc 7, 15). L’anima di ciascuno è libera di trovare il Regno di Dio e di custodirlo come perla unica e sublime, perché «Il Regno dei cieli è dentro di voi» (Lc 17,21). I santi, interpreti autentici del Vangelo, continuano a ripeterlo al «popolo di dura cervice» (Es 33, 2).

Cristina Siccardi

Fonte: Corrispondenza Romana

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