Riportiamo in patria gli ultimi Re d’Italia

Principessa Maria Gabriella di Savoia

Dopo il recente attentato al Consolato italiano in Egitto, un accorato e composto appello è giunto dalla Principessa Maria Gabriella di Savoia, che ha inviato una lettera a Paolo Granzotto  de il Giornale, lettera che il 16 luglio scorso è stata prontamente pubblicata con il titolo: Non lasciamo all’Isis la tomba del Re Soldato (www.ilgiornale.it ).

Scrive Maria Gabriella: «Quest’anno si celebra il centenario del primo conflitto mondiale nel corso del quale mio nonno, il Re Soldato, a unanime giudizio degli storici, si portò in maniera esemplare, favorendo il compimento del processo di unificazione col riunire all’Italia gli ultimi lembi di territorio in mano straniera. In considerazione delle gravi tensioni e violenze che stanno interessando l’Egitto, ritengo che per un dovere civile e morale sia giunto il momento di procedere al rientro delle salme di Re Vittorio Emanuele III e della Regina Elena: per salvarne la loro e la nostra collettiva memoria. Molte nazioni oggi repubblicane ma che furono monarchie hanno provveduto al rimpatrio delle salme dei loro regnanti e ciò non solo in segno di pacificazione nazionale, ma anche nel rispetto della tradizione storica. Perché il nostro paese non può fare altrettanto?».

L’appello è stato presentato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella «certi che da risoluto e generoso rappresentate dell’unità nazionale qual è, non ne resterà sordo», ha scritto Granzotto il 16 luglio stesso, «D’altronde quello che lei chiede è un atto di carità, di rispetto e di giustizia: Vittorio Emanuele III lasciò l’Italia senza che ne fosse obbligato da una ordinanza di esilio (lo stesso può dirsi, del resto, per Umberto II)».

Il timore di Maria Gabriella di Savoia non è certo infondato, visto che il rimpatriato Bruno Dalmasso, ultimo custode italiano del cimitero di Hammangi (dove sono sepolti 7.800 caduti italiani), ha denunciato le profanazioni e le distruzioni delle lapidi dei seguaci dei tagliagole islamici, e ha affermato: «Portiamo in Italia quei resti. Gli estremisti islamici li hanno profanati due volte» (www.ilgiornale.it ).

Legittima e coraggiosa è la richiesta di Maria Gabriella, nonostante sia ben cosciente dell’ostracismo perdurante nei confronti di Casa Savoia. Un ostracismo innescato dalle sinistre (1943), che hanno incanalato gran parte dell’opinione pubblica verso l’odio non solo per Vittorio Emanuele III, ma anche nei confronti dell’istituto monarchico stesso, che è stato eliminato con i brogli elettorali manovrati da Palmiro Togliatti nel Referendum istituzionale del 1946 (due milioni di voti sottratti).

I consensi per la Monarchia, nell’Italia della seconda Guerra mondiale, sono rintracciabili non solo nella storiografia e nelle cronache, ma erano la preoccupazione costante di Adolf Hitler, che ordinò la cattura e la deportazione della figlia del Re, Mafalda di Savoia, che morì assassinata nel lager di Buchenwald il 28 agosto 1944.

Il giorno dopo l’appello di Maria Gabriella, il 17 luglio, è andato in onda su Rai 3, nel programma La grande storia, un servizio non certo atto alla sensibilizzazione per il rimpatrio delle salme dei sovrani d’Italia, ma dedicato all’esaltazione della socialista e liberale Maria José, nella quale la principessa belga poi «Regina di maggio» è risultata, come nella tradizionale vulgata progressista, l’eroina, a fronte di un Umberto II definito, negli anni del doloroso esilio a Cascais e a causa della sua cattolicità, «penoso» e «bigotto».

La Regina Elena trasmise ai figli Jolanda, Mafalda, Umberto, Giovanna, Maria una grande fede cristiana, che madre e figli hanno manifestato ampiamente nelle loro esistenze, alcune delle quali tanto tragiche quanto esemplari. Quattro ore dopo aver abdicato (9 maggio 1946), Vittorio Emanuele III era già a bordo del Duca degli Abruzzi, diretto verso l’Egitto. Re Farouk gli aveva offerto ospitalità nel suo palazzo di Qubbè Sarayi, al Cairo, ma Vittorio Emanuele, che prese a farsi chiamare conte di Pollenzo, scelse per sé e la moglie Elena un’anonima villetta a Shuma, sobborgo di Alessandria d’Egitto.

I Savoia non potevano (come sempre accade nelle rivoluzioni che smantellano le monarchie) accedere al patrimonio personale, che con la XIII Disposizione finale della Costituzione lo Stato avocò a sé, perciò Vittorio Emanuele partì povero, così come partirà il figlio per il Portogallo: sarà Re Farouk a sostenere il conte di Pollenzo e saranno gli italiani fedeli al Re a sostenere Umberto II, al quale il Venerabile Pio XII prestò una somma di denaro per i primi duri tempi di Cascais; Re Umberto II restituì poi la somma: avrebbe voluto conteggiare anche gli interessi, ma essi vennero benignamente revocati dalla Santa Sede.

Vittorio Emanuele che affrontò, nel bene e nel male, quattro guerre (due mondiali, quella di Libia e quella di Etiopia) e che regnò 46 anni, morì il 28 dicembre del 1947, il giorno seguente la promulgazione della Costituzione repubblicana. Nonostante l’offerta del sovrano d’Egitto di una sontuosa cappella nel cimitero latino, la Regina Elena, senza smentire la sua indole umile e riservata, scelse la piccola chiesa di Santa Caterina ad Alessandria d’Egitto, dove la salma venne tumulata dietro l’altare maggiore, in un loculo dove è riportata la semplice scritta: «Vittorio Emanuele di Savoia 1869-1947».

Elena morì il 28 novembre del 1952 a Montpellier, in Francia, dove si era trasferita per sottoporsi alle cure mediche del professor Lamarque. Come era stata stimata e amata in Italia, la «bonne Dame noire» (perchè portava rigorosamente il lutto) venne stimata e amata in Francia per il suo povero stile di vita e per la sua disarmante carità, sempre vigile sugli infelici: fu sepolta, come suo desiderio, in una comune tomba del cimitero cittadino. L’intera città si fermò per assistere e partecipare al suo funerale, al quale presero parte 50 mila francesi. I montpelliérains sono ancora oggi riconoscenti alla Regina Elena, morta in concetto di santità, e la sua tomba è sempre fiorita.

La vulgata innescata dal tribunale antimonarchico è stata impietosa nei confronti di Vittorio Emanuele III, del quale, nonostante alcuni gravi errori di valutazione, non si può, con onestà intellettuale, ricordare che fu contro l’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra mondiale, contro le leggi razziali (ma non poté che ratificarle, dopo 2 veti), contro la persona e l’agire di Hitler.

Per quanto riguarda l’8 Settembre 1943, il Re Soldato, formato alla ferrea disciplina del Generale Egidio Osio, preservò l’indipendenza italiana e la monarchia, trasferendo la sede del Governo a Brindisi: il termine «fuga», infatti, venne coniata dai nemici della corona, per screditarla. Non furono, infatti, fughe quelle del governo francese da Parigi a Bordeaux nel 1916, dei governi belgi, olandesi, norvegesi e polacchi nel 1939, bensì trasferimenti per non cadere incoscientemente nelle mani del nemico.

Molte cose avrebbe da dire (e in vita le disse) la Medaglia d’oro al Valor Militare Edgardo Sogno (1915-2000), anticomunista e coraggioso alfiere della monarchia, del quale proprio quest’anno ricorrono cento anni dalla sua nascita… ma «La grande storia» di Rai 3, sebbene gli furono decretati i funerali di Stato, si guarda bene dal celebrarne la memoria.

Riportare le salme dei Reali in Italia, oltre ad essere carità cristiana, di rispetto, di giustizia, sarebbe dovere civico e storico di una nazione che non ripudia se stessa e la sua «grande storia».

Cristina Siccardi

Fonte: Corrispondenza Romana

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