Andiamo a Santa Croce del Sannio con gli intensi racconti di Fernando Anzovino

Nostro Signore ha creato L’Universo e, in esso, il mondo, con i suoi continenti e, in essi, le nazioni, con regioni, città, paesi, borghi. L’Europa cristiana medioevale con i suoi sovrani e feudatari, che ha riconosciuto in Cristo l’alfa e l’omega, ha sviluppato ordinamenti statuali e sociali di grande civiltà, esaltando identità territoriali e artistico-culturali. Ecco perché oggi i turisti possono godere di piccoli luoghi arredati di sfavillante bellezza, sacra e civile. Tuttavia esiste una bellezza più nascosta che continua ad essere tramandata grazie a chi ha mantenuto uno spirito artistico e poetico di chiaro stampo cattolico. C’è chi, infatti, riesce ad esaltare paeselli sconosciuti ai più grazie al patrimonio cristiano che non ha dimenticato e, non rassegnandosi alla secolarizzazione imperante del nostro tempo, trasmette, con i suoi racconti, il quotidiano sereno e pacifico di quando ancora si viveva nel rispetto, nell’educazione e nel «timor di Dio», proprio come fa Fernando Anzovino, classe 1943, parlando di Santa Croce del Sannio, in provincia di Benevento.

Studente dei Padri Benedettini Silvestrini, si trasferì ventenne a Campobasso, dove si è costruito una bellissima famiglia con Giuseppina Moffa e, pur lavorando, ha continuato a coltivare la sua passione per il teatro e la letteratura, in particolare la poesia, recitando sul palco e scrivendo libri. Partecipò, fra l’altro, a nove edizioni del dramma sacro Il guerriero Cristiano sulla vita e il martirio di San Sebastiano.

Il testo fu tratto dal romanzo Fabiola o la Chiesa delle catacombe (1854) del Cardinale Nicholas Patrick Stephen Wiseman (1802-1865), il quale contribuì a favorire il mirabile cammino di conversione del Beato John Henry Newman (1801-1899) dall’Anglicanesimo al Cattolicesimo. Autore del dramma sacro, interpretato in gioventù da Anzovino, era Don Giacono D’Uva, parroco di Santa Croce del Sannio, che riadattò la narrazione di Wiseman, e ancora oggi, dal lontano 1921, viene messa in scena a cadenza quadriennale.

Santa Croce del Sannio è un’antica stazione romana (statio super tamari fluvium; itinerarium antonini, 161 d.c.). L’attuale denominazione deriva dalla chiesa dedicata alla Santa Croce nell’VIII secolo e, riedificata nel 1245 dai Francescani, campeggia il centro abitato. Re Desiderio, ultimo Re longobardo, assegnò il possedimento di Santa Croce all’Abate Theodemario nel 762. Al tempo delle invasioni saracene, nel IX secolo, il casale di Santa Croce fu risparmiato dai saccheggi. La tradizione narra della conversione al Cristianesimo di Seudan, Capitano dei Saraceni, colui che avrebbe dovuto vincere sul feudatario di Santa Croce. Pace fu e La pace è il titolo del torneo tra cristiani e saraceni che viene riproposto annualmente ogni martedì grasso (documentato per la prima volta nel 1785, è stato interrotto soltanto nel 1943 a causa della guerra).

La Pace del 1976. I contendenti Pietro Di Maria (Cuccione) e Nicola Parlapiano (Sgro)

(Per gentile concessione di Fiore San Barbato)

Nell’anno 1000 Santa Croce era un casale dominato dalla Famiglia dei Santa Croce, che divenne molto potente sotto gli Angioini. Nel 1456 Ferdinando I D’Aragona diede questo feudo come remunerazione al suo capitano d’armi, Giovan Battista del Balzo. La chiesa, intitolata al Santo Patrono, San Sebastiano, venne edificata dalla famiglia del Balzo nel 1536. In seguito il feudo passò alla famiglia Tramontano di Sorrento. La rivolta dei santacrocesi, difesi da Giuseppe Maria ed Ezechiele Galanti, contro i Tramontano, tiranni e dissoluti, fece sì che, prima dell’abolizione del feudalesimo, il casale di Santa Croce divenisse libera Università. Il Comune fece parte del contado del Molise e, nel 1861, passò alla provincia di Benevento.

Il centro storico, ricco di palazzi caratterizzati da portali e stemmi in pietra, opera di scalpellini locali del 1700, è costituito da una zona antica medievale e da una zona settecentesca con ampie strade e piazze, dove si può ammirare la chiesa dedicata all’Assunta, con la bellissima facciata in pietra calcarea locale, realizzata con i massi portati dai contadini per devozione.

Qui, un tempo, era fiorente l’artigianato con la lavorazione della terracotta, della pietra e del ferro, la tessitura a mano e, in particolare, quella dei tappeti. La tradizione cristiana a Sannio di Santa Croce è presente soprattutto nella peculiarità delle diverse rappresentazioni, che di generazione in generazione, si perpetuano. Viene allestito il dramma-processione del Venerdì Santo, il quale si sviluppa con due percorsi diversi: all’imbrunire, partono due cortei, quello degli uomini che, accompagnati dal suono della “troccola”, recano la statua di Gesù post mortem e descrivono, con un canto, la Crocifissione; il secondo è composto dalle donne, le quali portano la statua di Maria e descrivono, con un canto, lo strazio della Madre che non conosce ancora la sorte del Figlio e lo cerca salendo al Golgota. Le due processioni confluiscono in un luogo prestabilito, per l’incontro della Madre con il Figlio già morto, per proseguire insieme verso la chiesa.

C’è poi il dramma Sacro La rosa di Roccaporena: si tratta della rappresentazione della vita di Santa Rita da Cascia, che si realizza in maggio. Infine per la festa di Sant’Antonio da Padova (13 giugno) – in passato, i contadini, che contribuivano a portare in processione le 13 statue ospitate nella chiesa del convento di San Francesco venivano rifocillati dai monaci – si tiene il dramma Sacro San Vito martire, il cui testo  risale alla seconda metà del XVIII secolo.

Tutto questo si è detto per comprendere che Fernando Anzovino viene da una terra che, nonostante il suo spopolamento, conserva in alcuni aspetti quelle armonie che l’autore visse da bambino e da ragazzo in pienezza, e che ora ci rappresenta, con la prosa, i discorsi diretti, le immagini e le sue poesie, nel libro d’affresco e di memorie Il Concerto di Via Vitelli e altri ricordi (Fondazione Giuseppe Maria Galanti, Santa Croce del Sannio 2018).

 

Mast Mingucce al lavoro, con due allievi (quello a sinistra è Nicola Anzovino, padre dell’autore del libro) in una foto del 1916 (Raccolta della Famiglia Del Donno)

Da queste pagine, che profumano di vita autentica, e dalle fotografie d’epoca, emergono personaggi tanto caratteristici quanto veri, uomini e donne “liberi” dalle trappole rivoluzionarie perché consci della serietà dell’esistenza mortale ed eterna e, dunque, consapevoli dei propri doveri e delle proprie responsabilità di fronte al Signore e agli uomini. Erano i non lamentosi, i non nervosi, i non iracondi, i non capricciosi; tutto regole, niente diritti, maestri del saper vivere e del saper morire, proprio come Gilorm, che Anzovino conobbe e che ora dipinge con maestria letteraria. Era il sagrestano e il campanaro del paese.

«Io Girolm l’ho conosciuto bene per averlo frequentato nelle funzioni religiose fin da quando ero bambino e successivamente allorché – uscito di collegio – per qualche tempo fungevo da organista. Potrei dire che per me è stato sempre uguale nel corso di un trentennio, col suo passo strascicato, col suo improbabile latino quando serviva la messa […] tra i vari compiti (servire la messa, pulire la chiesa, provvedere al rifornimento dell’acqua e del vino, tenere in ordine gli altari, i paramenti, sistemare le candele) aveva quello di campanaro. Mansione, questa, importantissima perché il suono della campana era per i più il vero orologio su cui regolare la propria giornata. Le campane non erano elettriche come oggi e perciò Girolm ogni giorno, e con qualunque tempo, per cinque volte saliva e scendeva i quasi cento scalini del campanile per scandire le “ore” dei santacrocesi, che erano così articolate: Mattutino (alle 4:30 d’estate e alle 5:00 d’inverno); Mezzogiorno; Vintunora (alle tre o alle quattro del pomeriggio, a seconda se era d’inverno o d’estate); Vintiquattore (un’ora dopo il tramonto) e L’ora ‘e notte (alle 20:00 d’inverno e alle 21:00 d’estate). Nelle ore di buio si serviva di una lanterna per raggiungere la cella campanaria. Nei mesi invernali aveva le mani ricoperte da guanti di lana per cautelarsi contro i geloni che lo tormentavano. Diceva sempre che quando nevicava e gelava non andava volentieri a suonare le ore alla campana grossa perché “È fruidde ru battaglie[1].

Gerolamo era un semplice, attaccato alle piccole cose, talvolta anche un po’ credulone. Fui io stesso testimone di uno spassoso episodio che si verificò una mattina allorché egli si apprestava ad aprire la Chiesa Madre e fu fermato da Zi’ Angiuline Cassetta, altro notissimo personaggio di Santa Croce che aveva la sua bottega di falegname proprio in Via Chiesa.

Questo il dialogo: 

“Girò”, ‘sera si’ lassata raperta la porta ‘e la chiésia che jesce sott’a la lampia!”[2].

“Nóne, nun è llu vère!”[3]

“E véne a vedé!”[4]

La porta difatti era solo accostata così da sembrare chiusa.

“Ih! E mó’?”

“E mó? Ha vist? San Giuvann se n’è sciute e se ne sta jènn! L’agge vist póche prima ‘mmez’a la chiazza.”[5]

E Girolamo, disperato: “Ohi Ddie! Fuìme, fuìme, iàmmel’a piglià’!”[6]

Un’altra volta (era il 13 giugno) mi disse: “Fernà’, famm nu cumplimènt!”[7]

Non si trattava ovviamente del desiderio di sentirsi dire una bella frase, ma di ricevere un regalo in denaro.

“Va bbóne, ma ne parlame dópp la prucessione. O ru vó’ mó?”

E lui: “Hum! Mèglie mó’!”[8]

Un giorno del 1976 gli domandai: “Girò’, ma tu quant’ann téne?[9]

E lui, sorridendo: “Nun sóngh vécchie assaie; sóngh de la classe de ru nuvantacinche (1895).”[10]

Qualche anno dopo morì.

Di questi ultimi episodi conservo la registrazione in voce, che di tanto in tanto riascolto. E lo rivedo e lo risento vivo. E mi rattristo. Perché con lui è andato via un pezzo di quella Santa Croce che non esiste se non nel ricordo. Io gli ho voluto bene, come – sono certo – tutti quelli che lo hanno conosciuto» (pp. 14-16).

Per più di 50 anni Girolm quotidianamente saliva e scendeva i 100 gradini della torre campanaria, ma questa era la “normalità”; poi venivano i giorni, prefestivi e festivi, in cui erano richiesti gli straordinari: oltre le ore canoniche si sommavano gli scampanii per le varie funzioni religiose – novene, settenari, tridui – oppure risuonavano le campane per l’annuncio della morte di qualcuno o per accogliere all’arrivo e per salutare all’uscita il feretro, per non contare i tocchi a distesa al fine di impetrare la pioggia o per scongiurare la grandine… cose d’altri tempi qualcuno dirà; cose per amore di Dio e per il bene delle anime diciamo noi, e la vita scorreva nell’ordine, nella stabilità, nell’armonia, quella che respiravi in Via Girolamo Vitelli, la più popolata del paese, la più animata a ragione delle attività che qui si espletavano ai tempi in cui c’era anche Anzovino: quattro fabbri ferrai, tre calzolai (fra cui il padre dell’autore: Nicola Anzovino), due tessitrici, una sarta (fra cui la madre: Angela Bucci Anzovino), un falegname, un mugnaio. Dalla magnifica descrizione del quadro emerge lo scorcio di un borgo da presepe. E non è retorica, è realtà, tanto basta sapere che, da questa impostazione esistenziale, scandita dalla Fede e dal senso del dovere, venivano fuori persone come Zi’ Giuditta, ovvero la nonna paterna dell’autore.

Suo marito, quando non lavorava in bottega, ferrava asini e cavalli per le campagne, mentre lei si dedicava alla numerosa famiglia, alla casa e al telaio, con il quale spesso riusciva a far quadrare i conti domestici. Era il 22 maggio del 1907, giorno di Santa Rita, quando, in attesa del penultimo figlio, ottemperò alle incombenze quotidiane per poi andare al telaio per terminare una pezza che doveva essere pronta per la sera; il marito era fuori per lavoro e i figli si trovavano da sua sorella, ad un certo punto arrivarono le doglie del parto. Non poteva chiamare nessuno, era sola in casa e il telefono non l’avevano… Con la preghiera e l’aiuto del Signore raggiunse la camera da letto al piano di sopra e fece la levatrice di se stessa e così nacque Carmine. Terminato di mettere apposto il bambino e stessa, ricordandosi di dover consegnare la pezza di tessuto quella sera stessa, scese in laboratorio con la culla e si mise al telaio. Quando il marito rincasò trovò la sua Giuditta dove l’aveva lasciata al mattino, ma in compagnia del neonato. Si dispiacque oltremodo per quel parto in solitudine e per essere ora lì al lavoro, invece che nel letto a riposare. Ma alle rimostranze del marito, Giuditta rispose: «Sabastià’, ma quale ‘mprudenza! Qua sime nove – e guardando il bambino – anzi diece vócch da samà”!»[11].

Tempre spirituali così, Dio le aiuta.

Ribrezzo si prova oggi di fronte a quella gente che si “sballa” alla movida di turno.

Di fronte a Zi’ Giuditta ci si inchina.

Grazie a Fernando Anzovino per suoi suoi racconti: sono le novelle dei “presepi” del Nostro patrimonio cattolico italiano!

Cristina Siccardi

 

[1] È freddo il battaglio

[2] Girolamo, ieri sera hai lasciato aperta la porta della chiesa che esce sottola la lampia (passaggi oad arco).

[3] No, non è vero.

[4] E vieni a vedere.

[5] “E adesso? Hai visto? San Giovanni se n’è uscito e se ne sta andando. L’ho visto poco fa in mezzo alla piazza”

[6] “O Dio! Corriamo, corriamo, andiamolo a prendere!”

[7] “Fernando, fammi un regalo!”

[8] “Hum! Meglio adesso!”

[9] “Girolamo, ma tu quanti anni hai?”

[10] “Non sono assai vecchio; sono della classe del novantacinque (1895)”

[11] «Sebastiano, ma quale imprudenza! Qua siamo nove, anzi dieci bocche da sfamare!».

 

Fonte: Europa Cristiana

Torna in alto