L’ispirazione modernista di Giacomo Manzù

di Cristina Siccardi – 20 settembre 2017 “Corrispondenza Romana”

Don Giuseppe De Luca e lo scultore Giacomo Manzù: un sodalizio che risultò vincente nel far penetrare l’Arte contemporanea anticattolica in San Pietro. Scriveva De Luca (1898-1962), che iniziò i suoi studi seminariali dai Gesuiti per completarli al Pontificio Seminario Romano Maggiore e divenire mediatore fra Curia Romana, Segreteria di Stato, Sant’Uffizio ed esponenti di spicco del mondo intellettuale, artistico e politico di quel tempo, rispondendo a coloro che criticavano (fra cui Celso Costantini su L’Osservatore Romano, 24 settembre 1942) i profanatori dell’arte sacra, Giacomo Manzù (1908-1991) e Renato Guttuso (1911-1987):

«Siamo davanti a una nuova insurrezione di spiriti morali o devoti. (…) Noi non vogliamo offendere l’ecc.mo Bernareggi di Bergamo, né l’ecc. Costantini: due ecclesiastici non ignari del tempo in cui viviamo. Neppure vogliamo molestare l’organo della Santa Sede. Noi mandiamo per buone persino le condanne del Presule di Bergamo, e le minacce di pene divine dell’Ecc. Costantini. Quel che ci angoscia e ci rivolta, è che noi, quanti amiamo l’arte, non troviamo accanto a noi il clero, se non per protestare e condannare. È, ripetiamo, il loro dovere. Ma non è anche loro dovere incoraggiare, promuovere, coronare, premiare? L’arte di cui tanti si gloriano quand’è dei secoli passati, perché nel secolo presente trova assente i nostri vescovi e il nostro clero? Possibile che tutta l’arte italiana sia una congiura per il trionfo della laidezza e dell’empietà? Ma perché non anche lodarci, quando lo meritiamo? Perché vedere incaponirsi a fare, per così dire in casa, anzi in sagrestia, un pensiero cattolico, un’arte cattolica, un’azione cattolica, e non entrare nel pensiero nell’azione degli uomini? E ciò che è umano, non è perciò stesso cristiano, perché chiamato ad esserlo dall’unico autore che noi confessiamo dell’umanità e del cristianesimo. Che cosa sono codeste perpetue barriere di cui soltanto sembra, oggi, che consti la morale di Cristo?» (M. Roncalli, Guttuso, quella Crocifissione che scandalizzò Bergamo. In mostra a Roma il quadro vietato dalla Curia nel ’42, in Corriere della Sera, 3 novembre 2012).

Le giuste e sacrosante barriere per difendere la Bellezza, il Buono, la Verità delle realtà divine sono crollate “grazie” anche a don Giuseppe De Luca, che fra le sue frequentazioni spiccavano, oltre Alcide De Gasperi, anche i nomi di Ernesto Buonaiuti e di Palmiro Togliatti. Padre Maria Turoldo, il laico e decadente poeta, definì Guttuso: «un narratore biblico, di una Bibbia in fiamme, mai finita che è la nostra storia».

Ma la storia cattolica rientra in un quadro di Storia della Salvezza e come tale deve essere rispettata, nella sua Sacralità. L’artista di Bagheria si era permesso, invece, di dare un’immagine deformata, brutta, profana, nudista del Calvario. L’erudito prete romano, che intrecciò forti rapporti fra l’arte moderna e l’eresia modernista, giunse ad esprimere – sentendo quasi una frustrazione ed un senso di inferiorità rispetto a quel che sentiva nei salotti culturali e politici dove era di casa – la possibilità di un rinnovamento ecclesiologico in sintonia con i mutamenti sociologici e storici, tradendo, di fatto, ciò che è proprio dell’essere Chiesa: condannare gli errori (compresi quelli artistici) e guidare tutto alla retta ragione e alla retta Fede.

Il Patriarca Angelo Roncalli incontrò Manzù grazie a Don De Luca nel 1956, durante la XXVIII Biennale di Venezia. Nel 1958, divenuto Pontefice, Giovanni XXIII si fece ritrarre nel bronzo dallo scultore suo conterraneo. Sarà proprio questo Pontefice a convincerlo a riprendere il lavoro della Porta per la basilica vaticana su Il Trionfo dei Santi e dei Martiri.

Nel 1947, infatti, la Fabbrica di San Pietro aveva indetto un concorso per la realizzazione di quattro delle cinque porte della Basilica, allora in noce, da realizzare in bronzo (quella centrale era già stata realizzata dal fiorentino Filarete nel XV secolo).

Vinse Manzù, ma le perplessità e le resistenze nei suoi confronti furono parecchie, come riporta Roberto Marchesini nel suo libro La rivoluzione nell’arte. Una sfida alla bellezza del creato (D’Ettoris Editori, Crotone 2016, pp. 93-94): «non solo per il suo ateismo e le sue posizioni politiche (il suo comunismo divenne sempre più esplicito con il passare degli anni), ma anche (e forse soprattutto) per il ciclo dedicato alle Crocifissioni e Deposizioni, all’interno del quale ci sono opere al limite della blasfemia (un crocifisso scheletrico, un soldato romano nudo con il pickelhaube, l’elmo che richiama l’esercito tedesco…).

Manzù, che lavorerà per l’Università Cattolica di Padre Gemelli, riceverà il premio Lenin per la pace nel 1965. La porta bronzea di San Pietro doveva essere realizzata, come si è accennato, su Il Trionfo dei Santi e dei Martiri, ma non era un tema appropriato per l’ateo Manzù. Racconterà il medesimo ad Ardea, in un colloquio del 1987 avuto con Marco Roncalli, nipote di Giovanni XXIII: «Un giorno, dopo i primi incontri, il Papa portò il discorso sulla Porta di San Pietro: “Faccia la Porta, subito!”. Replicai che con la commissione non potevo lavorare in libertà. E lui: “La commissione è composta da qualche cardinale, lei la faccia subito e la commissione non la disturberà”. Gli dissi: “Potrei farla sulla morte?”. Rispose: “La faccia sulla morte”. Cominciai il giorno seguente, dopo quattordici mesi era finita» (M. Roncalli, Le storie. Manzù, immaginario cristiano, in «Avvenire», 9 gennaio 2011).

Fu così che con la porta entrò, per la prima volta, l’arte atea e comunista in Vaticano. La porta della morte, e tale è nel senso più laico del termine, venne inaugurata nel giugno del 1964 alla presenza del nuovo Pontefice, Paolo VI. Come racconta Curtis Bill Pepper nel suo Un artista e il Papa (Mondadori, 1968), Manzù era lì per l’occasione insieme al figlio, al cognato e al noto banchiere mecenate Raffaele Mattioli.

Nell’attesa dell’arrivo del Papa, Manzù era sorpreso di quell’inaugurazione a porte chiuse, stava avvenendo «in sordina senza nessuna celebrazione-benedizione pubblica. Tutto stava accadendo dietro una sorta di sipario e senza invitati (…). Infine Paolo VI, con alcuni dignitari, arrivò. Manzù notò che “appariva sorpreso, come se avesse appena saputo che sotto il porticato della sua chiesa stava succedendo qualcosa di insolito”. Dopo aver salutato l’artista, il Papa rivolse uno sguardo malinconico verso la porta. Manzù pensò ancora: “Ecco un uomo molto chiuso e molto sensibile, e inguaribilmente triste”. Il silenzio durò a lungo. Poi il Pontefice, indicando con un gesto vago i pannelli bronzei, chiese allo scultore: “Se vuol spiegarci il significato di tutte queste”. “Sì Santità”, rispose Manzù.

Ma da quella spiegazione appassionata il Papa non parve particolarmente colpito, tanto che si mise a parlare con l’ambasciatore tedesco, allontanandosi un po’ dall’artista. Prima di andarsene, però, si girò verso lo scultore e gli disse: “Dio la benedica”. Quindi, silenziosamente, sparì nel buio della Basilica con tutto il suo seguito» (in R. Marchesini, op. cit., p. 95). Eppure Paolo VI diventerà il sostenitore degli artisti dell’arte “sacra” contemporanea nel vano tentativo di allacciare un rapporto, un «dialogo» – secondo l’incipit del Concilio Vaticano II – fra Chiesa e artisti moderni, lontani dalla Fede…

Di certo sappiamo che le formelle furono oggetto di critiche e polemiche, tanto che quella dedicata alla crocifissione fu sostituita perché qui, sia Gesù che i soldati, erano nudi (oggi in possesso di Ettore Bernabei); un’altra, dedicata al Concilio Vaticano II, venne rimpiazzata poiché vi era rappresentato, insieme a Giovanni XXIII e quattro vescovi, Paolo VI con un simbolo massonico (il pentalfa), inciso su una mano.

Un’altra, dedicata alla morte violenta, avrebbe dovuto ricordare sia le vittime partigiane che lo scempio del corpo di Mussolini a piazzale Loreto: in essa Manzù raffigurò Giovanni XXIII in ginocchio di fronte al dittatore appeso per i piedi. Il soggetto venne giudicato troppo «fascista» per uno scultore d’impostazione notoriamente comunista, così l’artista trasformò la formella «di destra» in una «di sinistra». Quella rappresentazione venne poi riciclata nel 1973, quando gli venne commissionato dal sindaco di Bergamo Pezzotta un monumento commemorativo alla resistenza. E l’appeso per i piedi si trasformò in un partigiano.

Fu proprio Don De Luca ad introdurre Manzù e Mattioli (che commissionerà allo scultore bergamasco un ambiguo monumento funebre, posto all’interno della chiesa dell’abbazia di Chiaravalle a Milano) in Vaticano, così in Vaticano entrò il primo Cristo della storia dell’arte del Cristianesimo (Morte per violenza, 1963) senza chiodi, senza corona di spine, senza Maria Addolorata, sostituita da boriosi generali nazisti, sinuose donne nude e alti prelati. Senza storia, senza tempo, senza divinità, Cristo era un uomo come tanti, un assassinato qualunque. Non più la Seconda Persona della Trinità, il Salvatore crocifisso per i peccati degli uomini.

Nell’ambito delle manifestazioni per il 50° di apertura del Vaticano II, la Fondazione Cardinale Giacomo Lercaro di Bologna celebrò l’Assise con un’esposizione dedicata a Manzù, in considerazione del rapporto intercorso (testimoniato da una corrispondenza epistolare) fra l’artista e Lercaro, uno dei quattro moderatori del Concilio.

La mostra (15 marzo-7 luglio 2013), curata da padre Andrea Dall’Asta SJ,attuale guida dell’Arte “sacra” contemporanea italiana, portava il seguente tema: Giacomo Manzù e il Concilio Vaticano II. Un nuovo volto dell’uomo nelle opere di un Maestro del Novecento. In realtà il nuovo volto che Manzù propose non era tanto quello dell’uomo, quanto quello di un Cristo neoariano (umanizzato), desacralizzato, profanato, paganizzato.

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