«Il cristianesimo dipende dai preti», questa l’idea-forza di san Vincenzo de’ Paoli – di cui ricorre la festa liturgica il 19 luglio (calendario Vetus Ordo, calendario Novus Ordo: 27 settembre) – idea condivisa dai riformatori cattolici della prima metà del XVII secolo, quando la Controriforma rispose efficacemente al Protestantesimo. San Vincenzo de’ Paoli è l’autentico ritratto di che cosa sia vivere la terza virtù teologale, concetto ben distante da quello laico di solidarietà, adottato dalla Chiesa secolarizzata dei nostri giorni.
Il come vivere la carità dipende dai preti e san Vincenzo de’ Paoli è stato un sacerdote di piena carità perché pienamente santo. Lo storico e critico letterario francese Henri Brémond scrisse di lui: «Non è la sua carità che ha fatto di lui un santo, ma la sua santità che l’ha reso veramente caritatevole».
Vincent de Paul nacque il 24 aprile del 1581 a Pouy in Guascogna (oggi Saint-Vincent-de-Paul) e morì a Parigi il 27 settembre 1660. Benché dotato di acuto intelletto, fino a 15 anni lavorò nei campi per la sua povera famiglia. Nel 1595 venne iscritto al collegio francescano di Dax, sostenuto finanziariamente da un avvocato e giudice che venne colpito dalla sua intelligenza. Vincenzo ricevette la tonsura e gli Ordini minori il 20 dicembre 1596, poi si iscrisse all’Università di Tolosa per gli studi di teologia.
Fu ordinato sacerdote a 19 anni, il 23 settembre 1600, e si laureò nell’ottobre 1604. Venduto come schiavo, dopo un rapimento, avvenuto alla fine di luglio del 1605, per mano di pirati turchi su una nave (tratta Marsiglia-Narbona), riacquistò la libertà fuggendo due anni dopo con il suo terzo padrone, un frate rinnegato che si fece musulmano per denaro e che lui convertì.
Nel 1612 fu nominato parroco di Clichy, alla periferia di Parigi. È di questo periodo l’incontro con il teologo e Cardinale Pierre de Bérulle, uno dei protagonisti della Contro-Riforma francese che, ispirandosi a san Filippo Neri, fondò a Parigi l’Oratorio di Gesù e di Maria Immacolata. Grazie a questa eccezionale guida spirituale, Padre Vincenzo iniziò a non badare più ai suoi problemi economici, dedicandosi alla vita apostolica fatta prevalentemente di catechismo e di carità.
Tuttavia accettò l’incarico di precettore del primogenito di Filippo, Emanuele Gondi, governatore generale delle galere, un incontro che si rivelerà provvidenziale per l’innesto delle sue molteplici attività. Lasciato momentaneamente il castello della famiglia Gondi, Vincenzo fu invitato dagli oratoriani di de Bérulle, ad esercitare il suo ministero nella parrocchia di campagna di Chatillon-le-Dombez.
Il contatto con la povertà rurale e gli ammalati mossero il santo alla costituzione di una confraternita di pie persone, impegnate a turno ad assistere gli ammalati della parrocchia. Il 20 agosto 1617 nasceva così la prima Carità, le cui associate presero il nome di Serve dei poveri e in tre mesi l’Istituzione ebbe un suo regolamento, approvato dal Vescovo di Lione. La signora Gondi riuscì a convincerlo a tornare nelle sue terre, in tal modo, dopo la parentesi di sei mesi come parroco, Padre Vincenzo divenne cappellano di ottomila contadini. Prese così a predicare le Missioni nelle zone rurali, fondando le Carità in numerosi villaggi, intanto, nel 1623, si laureò in diritto canonico a Parigi e anche qui fondò le Carità; sei anni dopo le Suore dei poveri presero il nome di Dame della Carità.
L’istituzione cittadina più importante fu quella detta dell’Hotel Dieu (Ospedale), che san Vincenzo organizzò nel 1634. Fra le centinaia di associate a questa Carità, vi furono la futura regina di Polonia Luisa Maria Gonzaga e la duchessa d’Auguillon, nipote del Primo Ministro, il Cardinale Richelieu. Le Carità vincenziane comparvero anche a Roma (1652), Genova (1654), Torino (1656).
Nel 1618 prese consistenza la predicazione rurale, tanto che altri sacerdoti si unirono a lui, i signori Gondi incrementarono il finanziamento a Padre Vincenzo e l’Arcivescovo di Parigi diede il suo appoggio, approvando la Congregazione della Missione il 24 aprile 1626, mentre il beneplacito del Re di Francia giunse nel maggio 1627 e quello di papa Urbano VIII il 12 gennaio 1632.
Nel frattempo sacerdoti missionari si raccolsero nel priorato di San Lazzaro, da cui prenderanno il nome di Lazzaristi. Per la formazione delle suore, affidò le giovani (1633) a santa Luisa de Marillac, vedova Le Gras. La nuova Congregazione prese il nome di Figlie della Carità, approvate nel 1646 dall’Arcivescovo di Parigi e nel 1668 dalla Santa Sede. Con il loro alare bianco copricapo, mantenuto fino alle nuove disposizioni del 1964, hanno sparso in ogni dove caritatevole assistenza ai malati negli ospedali, agli orfani, ai carcerati, ai feriti di guerra, agli invalidi e ad ogni sorta di miseria umana. Ancora oggi le Figlie della Carità costituiscono la Famiglia religiosa femminile più numerosa della Chiesa.
Attraverso l’Opera degli Esercizi Spirituali, i Lazzaristi divennero prestigiosi e qualificati formatori dei futuri sacerdoti, al punto che l’Arcivescovo di Parigi dispose che i nuovi ordinandi trascorressero quindici giorni di preparazione nelle loro case, in particolare nel parigino Collegio dei Bons-Enfants, di cui de’ Paoli era superiore. Più tardi, nel priorato di San Lazzaro, l’Opera degli Esercizi Spirituali si estese a tutti gli ecclesiastici che avessero voluto fare un ritiro annuale e anche a folti gruppi laici. A partire dal 1633, un ampio gruppo di ecclesiastici, con la guida di Vincenzo de’ Paoli, prese a riunirsi il martedì, dando vita alle celebri Conferenze del martedì.
Il Cardinale Richelieu volle essere informato sulla loro attività e chiese al fondatore una lista di nomi degni di essere elevati all’episcopato. Lo stesso re Luigi XIII chiese a monsieur Vincent una lista di degni ecclesiastici idonei a reggere diocesi francesi e quando fu sul punto di morte lo volle accanto al suo letto per ricevere gli ultimi conforti spirituali. Significativo poi che la direzione dei costituendi Seminari delle diocesi, disposti dal Concilio di Trento, venne assegnata nel 1660 a ben dodici rettori appartenenti ai Lazzaristi.
Nel 1643 de’ Paoli fu chiamato a far parte del Consiglio della Coscienza o Congregazione degli Affari Ecclesiastici, dalla reggente Anna d’Austria; ma l’opportunistica presenza del Cardinale Giulio Mazzarino impedì di fatto l’azione benefica di Padre Vincenzo, il quale giunse a chiedere alla regina (1649), invano, l’allontanamento di Mazzarino stesso. Fu lui ad essere rimosso, ma in compenso divenne Ministro della Carità, ministero mai esistito prima e preposto all’organizzazione, su scala nazionale,degli aiuti ai poveri.
Nei dodici capitoli delle Regulae, san Vincenzo ha riunito lo spirito che deve distinguere i suoi figli: la spiritualità contemplativa secondo il pensiero del Cardinale de Bérulle, sotto la cui direzione egli rimase per oltre un decennio; l’umanesimo devoto di san Francesco di Sales, suo grande amico, del quale lesse più e più volte le opere spirituali; l’ascetismo di sant’Ignazio di Loyola, del quale assimilò il temperamento pratico. Da queste tre fonti elaborò quella carità che vede nel povero e nel malato le sembianze di Cristo, e a quel povero e a quel malato viene portato Cristo, attraverso la carità. Un’interconnessione che con il Concilio Vaticano II, nella maggioranza delle istituzioni religiose di vita attiva, si è completamente e colpevolmente dimenticata, portando ad un assistenzialismo di tipo solidale: vedasi, per esempio, la demagogica e acattolica, nei principi come nei sistemi, accoglienza ai clandestini.
Le virtù caratteristiche dello spirito vincenziano, secondo la Regola dei Missionari, sono le cosiddette cinque pietre di Davide: la semplicità, l’umiltà, la mansuetudine, la mortificazione, lo zelo per la salvezza delle anime. Suoi libri prediletti: L’imitazione di Cristo; Filotea. Introduzione della vita devota; il Trattato dell’Amor di Dio (gli ultimi due di san Francesco di Sales). Che cosa è, allora, per san Vincenzo de’ Paoli la carità? È ciò che la Tradizione insegna in merito.
Il termine carità deriva dal latino chiarita (benevolenza, affetto, sostantivo di carus, cioè caro, amato). Fra le migliori definizioni sicuramente è da annoverare quella del Dizionario Treccani: «L’amore che, secondo il concetto cristiano, unisce gli uomini con Dio e tra loro, attraverso Dio. Il termine latino caritas, che implica insieme l’idea di stima e di benevolenza, è stato preferito dagli scrittori cristiani ad amor, e quasi contrapposto a questo, come più preciso equivalente del grecoἀγάπη (contrapposto all’ἔρως)».
La carità è la terza delle tre virtù teologali, anzi, la maggiore di tutte (Mc 12, 28-31 – Cor 13, 1-13), quella per cui gli uomini possono attuare il fondamentale precetto di amare Dio sopra ogni cosa e il prossimo come se stessi per amore di Dio. «La caritade» secondo sant’Agostino, censisce il Vocabolario degli Accademici della Crusca del 1612, il secolo di san Vincenzo, «è un movimento d’animo a servíre a Dio, per se, e a se, e al prossimo, per Domeneddio».
Ed ecco cosa diceva a proposito della carità il santo guascone: «La carità quando dimora in un’anima occupa interamente tutte le sue potenze; nessun riposo; è un fuoco che agita continuamente: tiene sempre in esercizio, sempre in moto la persona una volta che ne è infiammata». Niente a che vedere con la solidarietà, termine che nel 1612 non compare neppure. L’origine è francese e deriva dal latino solidus (massiccio) e dall’espressione latina in solidum (per tutti). Il Vocabolario Zingarelli così spiega: «Sentimento di fratellanza, di vicendevole aiuto, materiale e morale, esistente fra i membri di una società, una collettività». Nella carità Dio è al primo posto e in quest’ordine l’Onnipotente agisce con un dispiegamento soprannaturale di forze elargite a chi Lo amasinceramente, a chi si impegna, per puro amore di Gesù, con vera carità e non con «carità pelosa» (locuzione: sotto specie di carità verso altrui si tende ad altro interessato utile; come si dice «avere il pelo sullo stomaco», così anche «avere il pelo sul cuore»).
I giorni e le notti di san Vincenzo de’ Paoli, che visse come consigliava ai suoi, «nel riposo e nella fiducia in Dio, addirittura nell’allegria di Dio», erano inanellati di Santa Messa, lodi, adorazione al Santissimo, meditazioni, Angelus, vespri, compieta, come lui stesso rivela in una lettera del 1640 a santa Giovanna di Chantal. E proprio quella quotidianità, che iniziava alle 4:00 e terminava alle 21:00, edificata al cospetto di Dio, era in grado di concretizzare divinamente ciò che la solidarietà non potrà mai realizzare, perché dominata dai limiti umani. «Quando lascerete la preghiera per curare un malato», diceva alle sue Figlie della Carità, «lascerete Dio per Dio: curare un malato è come recitare la preghiera» e la preghiera compie miracoli, per sé e per gli altri.
Cristina Siccardi
Fonte: Corrispondenza Romana