San Carlo, l’Arcivescovo che «ha rifatto l’episcopato europeo»

Legislatore, amministratore, pastore, asceta, San Carlo Borromeo condusse più esistenze in una sola vita. Da secoli egli è lustro alla Chiesa ed è dimostrazione di cosa un solo uomo possa fare nel risollevare le sorti delle diocesi, ieri come oggi tremendamente minate dagli errori. Le opere di questo Santo costituiscono un vero e proprio corso di teologia pastorale, ma a rendere accessibili le sue riforme ai contemporanei, nonché ad immortalarne la memoria, hanno fondamentalmente contribuito la sua carità, la sua dedizione e il suo spirito sacerdotale.

La personalità dell’Arcivescovo di Milano – il Vescovo modello secondo lo spirito del Concilio di Trento, con gli occhi ardenti di fede e il viso scavato dai digiuni – si impose in tutta Europa nel giro di pochi decenni, con un vigore difficile oggi da immaginare per personalità ecclesiastiche. In una Chiesa fortemente in fermento, tormentata dalla questione della salvezza, il suo zelo apostolico e la sua generosità rappresentarono una manifestazione eccezionale del risveglio spirituale e pastorale di una Cristianità martoriata dall’eresiarca Martin Lutero. Egli fu risposta vivente alle tesi protestanti sull’utilità delle opere e sul valore indispensabile dei sacramenti e dei riti liturgici.

Nessun Santo in Europa è stato raffigurato come San Carlo Borromeo, perfino prima della sua canonizzazione. Cappelle e chiese in quantità sono intitolate a lui. Non c’era credente nel XVII secolo che non conoscesse la sua effige attraverso la piccola medaglia incisa da Rossi nel 1563 (già nel 1611, un anno dopo la sua canonizzazione, erano state battute 150 milioni di medaglie in suo onore) o grazie agli innumerevoli ritratti che decoravano gli altari e alla gigantesca statua, alta 28 metri: il cosiddetto «Carlone», che sovrasta l’incantevole Lago Maggiore.

Fra i vari aspetti della personalità del Vescovo della diocesi di Sant’Ambrogio, l’iconografia seicentesca ha posto in rilievo soprattutto l’immagine del pastore al servizio del popolo, che distribuisce i suoi averi ai poveri e, a rischio della sua vita, porta aiuto ai milanesi durante la peste del 1567.

In un dipinto di Crespi, a Santa Maria della Passione a Milano, il Santo è raffigurato seduto a tavola mentre legge, accontentandosi come i poveri, di un tozzo di pane e di un bicchiere d’acqua. Una tela di Borgianni, allievo di Caravaggio, lo rappresenta, invece, in mezzo agli appestati con un orfanello in braccio. Nella chiesa di San Carlo ai Catinari o di San Lorenzo in Lucina a Roma le pennellate di Piero da Cortone e di Serraceni mostrano un San Carlo che distribuisce vestiti e biancheria ai malati.

L’iconografia borrominiana è eloquente e incisiva, tanto immediata, quanto edificante. In una cappella di cui è titolare in Santa Prassede, dove si conservano delle sue reliquie, è raffigurato prostrato davanti al crocifisso, da cui si arguisce che dalla meditazione della Passione di Cristo attingeva la forza per continuare la sua missione. In un’altra cappella, corrispettiva a quest’ultima, prega davanti al Santissimo Sacramento, rapito in estasi. A copertina del presente testo abbiamo posto, per sintesi drammatica e trionfante allo stesso tempo, lo straordinario quanto attuale, nella sua evocazione, dipinto San Pio V e San Carlo Borromeo difendono il Cattolicesimo dall’Islam e dall’eresia protestante di Giovanni Gasparro – olio su tela, 220 x 160 com, 2017. Adelfia (Bari), Collezione privata. Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicini – carissimo collaboratore di «Europa cristiana».

Oltre ad essere pastore e uomo di preghiera, San Carlo è un capo, una roccia di ordine e di autorità. «Milano non gli basta, ha bisogno del mondo intero», scrisse con la penna intinta nel veleno della gelosia, Annibal Caro, segretario del Cardinale Farnese.

Discendente per parte di padre da una nobile famiglia milanese con vaste proprietà terriere sulle rive del Lago Maggiore, era per parte di madre, Margherita de’Medici, nipote del Cardinale de’Medici. Nel 1559 aveva solo 21 anni quando suo zio, appena eletto al soglio pontificio, con il nome di Pio IV, lo chiamò a Roma, promuovendolo protonotario apostolico, referendario della Segnatura apostolica, Segretario di Stato, membro di varie congregazioni, amministratore dell’Arcivescovo di Milano. E lo creò Cardinale. Grazie a tutti questi incarichi, divenne uno degli uomini più ricchi del Sacro Collegio.

Da bambino Carlo aveva avuto un’educazione pia e, destinato alla carriera ecclesiastica, ricevette la tonsura all’età di 8 anni; divenne abate a 12 e seguì gli studi all’Università di Diritto a Pavia. Per apprezzare le qualità del Cardinale ventiduenne, si devono osservare la pazienza, la diplomazia, la tenacia che impiegò per convincere i principi e gli altri prelati della Chiesa della necessità di riaprire il Concilio di Trento, interrotto dall’impopolarità di Papa Paolo IV. Operando come agente di collegamento, studiando tutti i dettagli delle questioni, come era uso fare,  appianò gli ostacoli sollevati dalla Francia e dalla Spagna, eliminando le obbiezioni.

Finalmente, il 18 gennaio 1562, un centinaio di vescovi si riunì a Trento, e venne aperta la XVIIª sessione dell’Assise. Carlo Borromeo, rimasto nell’ombra a Roma, si tenne informato di tutti gli sviluppi delle otto sessioni che seguirono, fino alla chiusura del Concilio del 3 dicembre 1563, intervenendo discretamente e svolgendo trattative per trovare giusti equilibri. Il suo senso di dedizione e la sua competenza contribuirono in modo determinante al successo delle sedute. Tuttavia fu soprattutto al termine del Concilio che iniziò la sua prodigiosa missione: i vescovi avevano stabilito i princìpi, ma ora si dovevano creare le condizioni pratiche e il quadro istituzionale nel quale la riforma avrebbe dovuto operare.

Proprio durante l’Assise si verificò un fatto che mutò drasticamente il corso della sua vita: morì il fratello maggiore, Federico. Il lutto lo pose di fronte ad una scelta: rimanere quel che era oppure, assumendo le funzioni di capofamiglia, avrebbe dovuto lasciare l’abito ecclesiastico? Scrisse ad un parente: «Questa perdita mi ha fatto progredire nella grazia del Signore. Questo fatto, più di ogni altra cosa, mi ha fatto toccare nel vivo la nostra miseria e la vera felicità della gloria eterna». Fino ad allora aveva ricevuto solo il diaconato e suo zio avrebbe potuto accordargli la dispensa per tornare allo stato secolare… Ma non solo scelse questa strada, decise di essere sacerdote.

Sreparò sotto la direzione spirituale dei Gesuiti, seguendo gli Esercizi di Sant’Ignazio. L’ordinazione sacerdotale si svolse in segreto e il 15 agosto 1563 celebrò la sua prima Santa Messa, mentre il 7 dicembre venne nominato Vescovo di Milano nella cappella Sistina.

Il pensiero della morte, la spiritualità di Sant’Ignazio e la direzione del Padre gesuita Ribera ebbero una grande influenza su di lui. Intraprese un percorso di penitenza, ambendo alla perfezione cristiana e allacciò rapporti con san Filippo Neri, del quale condivideva lo zelo riformatore. Il suo esempio fece scuola: il Papa stesso moderò il tenore di vita della Casa pontificia, raccomandando modestia al suo seguito. Il comportamento di San Carlo suscitava ammirazione, scrisse, per esempio, il legato veneziano nel 1565: «A ciascuno dà un esempio talmente sublime che si può dire a ragione che da solo egli fa più bene alla corte di Roma che tutti i decreti tridentini insieme».

San Carlo desiderava far ritorno nella diocesi di Milano, di cui era stato nominato Arcivescovo il 2 maggio 1564, ma Pio IV lo volle ancora con sé come suo braccio destro nel concretizzare le direttive del Concilio. Una delle prime misure fu la creazione di una commissione incaricata di fondare un Seminario romano. Borromeo, allora, interpellò i Gesuiti per inviarli a Milano, dove aprirono un loro Seminario il 10 dicembre 1564, addirittura prima di quello di Roma. Si occupò delle cerimonie liturgiche, di cui controllò il decoro e il rispetto dei riti, perché fino ad allora, troppo spesso, il culto divino si era svolto in maniera disordinata e ignorante. Intervenne personalmente nella musica sacra, che a quei tempi traeva spunti, motivi e regole dal canto profano. Vennero rivisti la Bibbia e il Breviario, nonché la composizione del messale, completata sotto il pontificato di San Pio V. Infine sorse l’esigenza di redigere un sommario della dottrina cristiana e Carlo Borromeo partecipò all’elaborazione del Catechismo, pubblicato nel 1566.

A fianco del Pontefice collaborò a molte altre attività, fra cui la revisione dell’Indice e un’edizione degli scritti dei Padri della Chiesa, impegnandosi anche per una riforma del Sacro Collegio. Mise pure in atto un piano mirabile per migliorare le condizioni sanitarie di Roma; creò alloggi per i mendicanti; controllò le attività del Monte di pietà; contribuì al restauro e alla decorazione di alcune chiese. Intanto non trascurava la diocesi di Milano, dove per sua volontà fu reintrodotta la clausura nei conventi. Per introdurre le riforme conciliari, vi inviò un sacerdote di Verona di sua fiducia, Nicola Ormaneto, uomo molto capace. Una delle principali prerogative di San Carlo fu proprio quella di circondarsi di persone di grandi qualità.

Finalmente entrò in Milano come Arcivescovo. Era il 23 settembre 1565. Ma nella notte fra l’8 e il 9 dicembre era nuovamente a Roma per assistere il Papa morente. Le porte del conclave vennero chiuse il 19 dicembre e il 7 gennaio i Cardinali scelsero come successore di Pio IV un fautore della riforma tridentina, il Cardinale Ghislieri, che prese il nome di Pio V. Quest’ultimo avrebbe voluto che il Cardinale Borromeo rimanesse a Roma, ma questi gli chiese con insistenza la grazia di poter far ritorno nella sua diocesi, in conformità con il principio di residenza effettiva formulato dal Concilio di Trento. Lasciò le sue ricchezze di beni e di opere d’arte e il 5 aprile fece ritorno a Milano, senza pompe. Qui, per vent’anni, sotto i pontificati di San Pio V e di Gregorio XIII, svolse un lavoro immane di riordino, di rinnovamento e di santificazione, dando egli stesso l’esempio, sottoponendosi a penitenze severe ed elevando in virtù il tenore di vita del vescovado. «Servirebbe a ben poco emanare decreti di riforma se poi noi stessi non li osservassimo», scrisse al Duca di Mantova.

La diocesi di Milano contava 740 parrocchie, quasi 200 conventi e monasteri, circa 3.350 preti su una popolazione di 560 mila persone. Da ben 80 anni nella diocesi, che si estendeva ben oltre la zona di Milano, fino a Verona e alle tre vallate svizzere del Canton Ticino, non risiedeva l’Arcivescovo… il degrado dottrinale e morale era evidente. Proprio per questa ragione San Carlo intraprese le sue instancabili visite pastorali, visitando le parrocchie e riorganizzando l’intera amministrazione della provincia ecclesiastica. Contemporaneamente creò un immenso archivio, dove raccolse tutte le informazioni possibili, divise per argomento, sulle parrocchie e sui sacerdoti. Un preziosissimo lavoro di statistica ecclesiastica, del tutto nuovo fino ad allora, che doveva essere continuamente aggiornato. Inoltre era posto sotto controllo il buon ordine dei registri parrocchiali. La riunione dei concili provinciali e dei sinodi diocesani erano assai utili all’Arcivescovo per seguire da vicino il buon andamento del piano riformativo. L’insieme di tutte queste misure furono raccolte negli Acta Ecclesiae Mediolanensis.

L’Arcivescovo entrava nei dettagli delle prescrizioni relative all’amministrazione dei sacramenti e della regolamentazione degli uffici; si occupava dell’ordinamento della pulizia delle chiese, della gestione delle biblioteche, dell’organizzazione delle feste e delle processioni religiose.

Tutto questo suo industriarsi per il Regno di Dio in terra viene contrastato da quegli ecclesiastici e religiosi che non vogliono la santità nella Chiesa. Il clima si arroventa a tal punto che il 26 ottobre 1569, mentre San Carlo prega nella sua cappella, gli sparano con un archibugio un colpo che gli trafigge il rocchetto e la sottana, reliquie oggi conservate nella Cattedrale di Bordeaux. Ma la pallottola non lo ferisce. L’attentatore è un certo Farina, appartenente agli Umiliati, i quali, dopo aver ricevuto l’ingiunzione di rispettare le riforme e di condurre una vita più virtuosa, hanno tentato di assassinarlo.

Durante i suoi viaggi pastorali San Carlo consacra chiese, studia la fondazione di un seminario o di un ordine religioso, verifica la competenza e la moralità dei preti, esamina i catechismi e, ad uso dei parroci, pubblica le Istruzioni per la predicazione della parola di Dio, un trattato nel quale vengono definiti i doveri dei pastori e i mezzi disponibili per compiere meglio questa missione; poi mette in circolazione il Monito per i confessori.

La fondazione e l’organizzazione di seminari diventò pietra fondativa della restaurazione cattolica. Poiché il primo Seminario fu quello dei Gesuiti, la maggioranza dei seminaristi sceglieva l’abito della Compagnia di Gesù, quindi, per ovviare a questo problema, l’Arcivescovo pensò di fondare l’ordine degli Oblati di Sant’Ambrogio, una congregazione di sacerdoti diocesani che vivevano in comunità, ai quali affidò, dal 1578, l’incarico di amministrare i seminati e di dedicarsi, sotto la sua guida, al ministero delle anime. Il successo portò alla creazione di un’altra congregazione di Oblati, ma laici e posti al servizio della diocesi.

Sua preoccupazione fu anche l’educazione e l’assistenza. L’opera educativa venne coronata dall’organizzazione di scuole di dottrina cristiana, dove gli studenti venivano istruiti e formati cattolicamente. Verso il 1550 il personale docente era composto da 3000 persone, fra preti e laici, distribuite per 140 istituti con 40 mila scolari. L’organizzazione, che riceveva la sua costituzione dalle mani di San Carlo, era basta su una gerarchia complessa, capitanata da un priore. Anche l’arrivo delle Orsoline, per l’educazione delle giovani, corrisponde all’esigenza pedagogica di San Carlo. Numerose poi le iniziative di beneficenza e di istituzioni atte ad accogliere gli abbandonati e i diseredati: orfanotrofi, ospizi, asili notturni per i medicanti. Nei periodi di carestia, l’Arcivescovo attivò le «mense popolari» e il vescovado stesso provvedeva al mantenimento di alcune migliaia di diseredati.

Quest’uomo di azione era anche uomo di profonda contemplazione. Era capace di meditare per otto ore di seguito, durante la notte, su un tema preciso. Recitava il Breviario inginocchiato sul nudo pavimento e dormiva soltanto quattro o cinque ore su un vecchio pagliericcio. Proverbiale la frugalità dei suoi pasti: dal 1571 si nutriva soltanto una volta al giorno con pane, acqua e un po’ di verdure. Nella sua camera solo il pagliericcio ed una poltrona, neppure un caminetto. Amici, medici, il Papa in persona si preoccupavano delle trascuratezze che aveva per la sua salute.

San Carlo era molto devoto di Gesù Eucaristia, che manifestava in pienezza durante l’adorazione del Santissimo Sacramento e durante la solenne celebrazione del Corpus Domini. Era poi un innamorato della Passione di Nostro Signore. Raccomandava ai sacerdoti e ai vescovi la pratica degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio, rendendoli obbligatori per gli ordinandi e ai preti impose la prassi quotidiana dell’esame di coscienza.

Fervore, pietà, intensa abnegazione. Organizzava preghiere pubbliche e processioni, incoraggiava i pellegrinaggi e le visite alle Basiliche. Memorabili i suoi pellegrinaggi per venerare la Sacra Sindone a Torino, e a Roma, in occasione del Giubileo del 1575.

Impressionante il dispendio di energie che profuse durante la peste di Milano, che esplose nell’autunno del 1576. Per un momento si ebbe timore che anche l’Arcivescovo fosse rimasto contagiato dal morbo, ma guarì e proseguì il suo lavoro percorrendo senza riposo le strade della città e dei paesi. I mali della popolazione rapprendevano la punizione per i peccati, perciò, per implorare il perdono e la misericordia di Dio, San Carlo prescrisse pubbliche preghiere di penitenza e di purificazione. Organizzò eroicamente processioni per le strade, partendo dalla cattedrale, dove la paura si univa al raccoglimento della gente. Egli, in cima al corteo, portava una grande crocifisso. Per gli abitanti relegati in quarantena e per i malti del lazzaretto, erano le campane delle chiese ad indicare l’ora per le preghiere. Da dicembre l’epidemia iniziò a regredire. Il 20 gennaio 1577 si celebrò una grande festa in onore di San Sebastiano. Le case vennero asperse con l’acqua benedetta; le processioni espiatorie avanzarono lungo le vie. A settembre l’Arcivescovo, come ringraziamento della fine di quella che venne chiamata «la peste di San Carlo», pose la prima pietra della chiesa votiva di San Sebastiano.

Tre settimane prima della morte, ad un frate cappuccino che lo supplicava di badare alla sua salute, rispose: «Per illuminare gli altri una candela deve consumarsi». Il 2 novembre 1584, al ritorno da un pellegrinaggio a Torino si fermò ad Asconia, nel Canton Ticino, dove voleva aprire un Seminario; ma fu assalito dalla febbre e fece ritorno ad Arona e da qui, moribondo, fu trasportato a Milano. Si spense nella notte fra il 2 e 3 novembre, all’età di 46 anni.

La Chiesa della controriforma deve molto a San Carlo Borromeo. Per tutte le diocesi d’Europa gli Acta Ecclesiae Mediolanensis rappresentarono un monumento della tradizione pastorale e un modello da imitare. Il Cardinale Bellarmino raccomandò di leggere la vita di San Carlo Borromeo, intanto Bossuet, Fléchier e San Vincenzo de’Paoli si servirono dei suoi trattati e delle sue argomentazioni per le loro omelie. San Francesco di Sales fu influenzato dai metodi di San Carlo, d’altronde aveva l’abitudine di farsi leggere a tavola i racconti della sua vita, pubblicati da Bascapé nel 1602. Con Papa Pio IV si può veramente affermare che l’Arcivescovo Carlo di Milano ha «rifatto l’episcopato europeo».

Cristina Siccardi

 

Fonte: Europa Cristiana

Torna in alto