San Gregorio VII. La libertas Ecclesiae

Spirito d’azione più che teorico, Gregorio VII rimase sempre fedele all’ideale di liberare la Chiesa dall’ingerenza del potere laico, in particolare da quello politico degli imperatori germanici, nonché dall’apostasia che correva in Europa. Ma compì anche una vasta opera di evangelizzazione, benché questo sia indebitamente un aspetto meno noto e spesso trascurato.

 

I complessi, articolati e numerosi atti riformatori, ecclesiologici e politici, compiuti a papa Gregorio VII hanno la loro ragion d’essere nella nutrita corrispondenza del Pontefice: 438 epistole che illustrano al meglio le basi evangeliche che mossero i suoi passi di fronte alla tragica condizione in cui versava la Chiesa, allo strapotere politico degli imperatori germanici, all’apostasia che correva in Europa. Si legge, per esempio, in una sua lettera indirizzata al vescovo Lanfranco di Canterbury, risalente alla fine di giugno del 1075: «I vescovi…ricercano con insaziabile brama la gloria del mondo e i piaceri della carne. Non solo sconvolgono in se stessi le cose sante e religiose, ma col loro cattivo esempio travolgono a ogni delitto anche i loro sudditi». Mentre scriveva così all’abate Ugo di Cluny, il 22 gennaio 1075: «Se poi con gli occhi dello spirito guardo a occidente, a sud o a nord, a stento io trovo vescovi legittimi per elezione e per condotta di vita, che si lascino guidare…dall’amore di Cristo e non dall’ambizione mondana. Fra i principi secolari non ne conosco uno che anteponga l’onore di Dio al proprio e la giustizia all’interesse».

Ildebrando, nato a Sovana, in Toscana fra il 1013 e il 1024, proveniva, secondo studi moderni, probabilmente da una famiglia di bassa estrazione sociale, tesi che però contrasta con la tradizione popolare, che lo vuole appartenente alla famiglia degli Aldobrandeschi. La sua formazione fu europea. Dopo aver studiato a Roma e aver avuto, come si dice, fra i suoi docenti Giovanni Graziano (? – 1047), che divenne papa Gregorio VI, seguì il Pontefice nel suo esilio, imposto in Germania dall’imperatore Enrico III, che lo aveva deposto dal trono di San Pietro nel 1047. Andò oltralpe malvolentieri, come egli stesso ammise, tuttavia la permanenza in terra tedesca fu fondamentale per la sua successiva attività ecclesiale.

Dopo la morte di Gregorio VI, proseguì gli studi nell’abbazia di Cluny, entrando in contatto con i circoli più vivaci a riguardo della riforma ecclesiastica. Conobbe, fra gli altri, Brunone di Toul (1002-1054), poi Leone IX, il quale gli chiese di fare ritorno a Roma, dove diede inizio ad una fulminea carriera ecclesiastica, divenendo fin da subito suddiacono della Sede apostolica. Operò, quindi, come legato papale in Francia, dove gestì il caso dell’eretico filosofo Berengario di Tours (998-1088), le cui dichiarazioni sull’Eucaristia provocarono una forte controversia.

Morto Leone IX, Ildebrando continuò ad avere influenza anche sotto i pontefici Vittore II (1018-1057), Stefano X (1020 ca.-1058), Niccolò II (980 ca.-1061), influenza che si impose sotto il pontificato di Alessandro II (1010/1015-1073), contrassegnando l’iniziativa di liberazione della Chiesa da ogni soggezione al potere laico. Alla morte di Alessandro II, la voce del popolo fu unanime nel designare Pontefice, nel 1073, Ildebrando. Egli iniziò subito il programma di sostanziale riforma della Chiesa, la riforma gregoriana. Con il Dictatus papae (1075-1076) affermò la superiorità del papato su ogni autorità temporale, e nel concilio del 1075 si pose come campione della libertas Ecclesiae e della concezione teocratica, entrando così in aperto conflitto con l’imperatore Enrico IV (1050 – 1106) e ponendosi in primo piano nello scenario di conflitto dovuto alla cosiddetta «lotta per le investiture», lotta su chi dovesse assegnare il titolo di Vescovo, se il potere civile o il potere religioso. Il Papa convocò un Concilio a Roma nel 1074 contro il clero simoniaco e concubinario e l’anno seguente un altro concilio ribadì le stesse decisioni del precedente, punendo i riottosi e sancendo la proibizione dell’investitura laica.

Le tensioni più accese si ebbero in Germania, dove molti feudatari ostili a Enrico IV approfittarono della situazione per indebolirne l’autorità. Nel 1076 il Papa scomunicò Enrico IV e Matilde di Canossa, Magna comitissa (Grancontessa), colei che permise a san Gregorio VII di continuare a regnare sulla Chiesa di Cristo, si schierò con decisione al fianco del Papa, nonostante l’Imperatore fosse suo cugino. La scomunica spinse Enrico IV a venire a patti con il Pontefice poiché la Dieta dei Principi di Augusta e gli stessi suoi sudditi gli erano contro; pertanto, nel gennaio del 1077, chiese l’assoluzione del Pontefice facendo penitenza di fronte a lui a Canossa, città diventata simbolo di ripensamento.

Per avviare le trattative di riconciliazione fra Impero e Papato, Matilde era presente, nel castello di sua proprietà, insieme all’abate Ugo di Cluny. Tutta la cristianità stava a guardare con ansia gli accadimenti. L’umiliazione dell’Imperatore fu assai pesante: per ottenere la revoca della scomunica fu costretto ad attendere davanti al portale d’ingresso del castello per tre giorni e tre notti, scalzo, con solo un saio addosso e inginocchiato con il capo cosparso di cenere. Furono momenti assai febbrili, rimasti impressi nei contemporanei e sulle carte, un avvenimento di cui ogni cronista, storico, poeta o cantastorie ha lasciato traccia.

Ma il ravvedimento di Enrico IV fu solo di carattere politico e temporaneo. Impunemente scese in Italia, dove trovò alleati anche fra gli ecclesiastici e raggiunse Roma, dove elesse un antipapa, Clemente III (1029-1100). Grazie all’amicizia con Matilde di Canossa, Gregorio VII, imprigionato in Castel Sant’Angelo, si alleò con il condottiero normanno Roberto il Guiscardo (1015-1085), il quale si vide riconosciuta la sua politica antibizantina, che si concretizzò con la spedizione contro l’Albania. Dalle milizie normanne il Papa venne liberato nel 1084, ma Enrico IV e l’antipapa non desistettero, perciò egli dovette lasciare Roma in mano ai Normanni, che la saccheggiarono, per poi ritirarsi, insieme al Pontefice, a Salerno, dove Gregorio VII morì il 25 maggio 1085 con grande mestizia e con queste parole sulla bocca: «Ho amato la giustizia, ho odiato l’iniquità, perciò muoio in esilio» (Cfr salmo 45, 8).

Sepolto nella chiesa di San Matteo a Salerno, spese la propria esistenza per difendere i diritti della Chiesa, ma anche per evangelizzare, un aspetto questo che viene spesso trascurato. Spirito d’azione più che teorico, Gregorio VII rimase sempre fedele all’ideale di liberare la Chiesa dall’ingerenza del potere laico, una battaglia che portò la libertas ecclesiae a primato del mondo ecclesiastico su quello laico, iniziando in tal modo ad applicare per primo la concezione teocratica del papato. Il culto tributatogli sin dalla morte (la memoria liturgica è fissata al 25 maggio) venne ratificato nel 1606 da papa Paolo V (1552-1621), che ne proclamò la santità.

Fonte: Radici Cristiane n. 153 – maggio 2020

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