Santi per il mese di agosto: Marco d’Aviano e i martiri di Otranto

In un videomessaggio del 19 aprile u.s. Papa Francesco, in occasione del 35° anniversario della fondazione del Centro Astalli dei Gesuiti per i rifugiati in Italia («nata dalla visione profetica del padre Pedro Arrupe», il teologo che sviluppò, dopo il Concilio Vaticano II, l’opzione preferenziale per i poveri e che simpatizzò per la teologia della liberazione), aveva chiesto perdono agli emigrati, giustificando, nel contempo, l’emigrazione tout court, perché emigrare in Europa è un “beneficio”, in quanto rende possibile la cosiddetta «comune umanità», quella neoreligione ambita, da 50 anni a questa parte, dal clero cosiddetto progressista: «Chi come voi è fuggito dalla propria terra a causa dell’oppressione, della guerra, di una natura sfigurata dall’inquinamento e dalla desertificazione, o dell’ingiusta distribuzione delle risorse del pianeta, è un fratello con cui dividere il pane, la casa, la vita».

San Pio X, quando era ancora parroco, poi Vescovo, poi Patriarca di Venezia, era molto attento, a differenza della maggioranza dei pastori della sua epoca, all’emigrazione degli italiani all’estero, ma la sua visione era legata alla cattolicità: si preoccupava, difatti, che gli italiani non cadessero con facilità negli interessi dei trafficanti di uomini; si preoccupava che le famiglie non perdessero le proprie radici; si preoccupava dell’opera di assistenza spirituale dei cattolici emigranti, affidandola alla Congregazione Concistoriale (incaricata di sovrintendere, secondo la riforma della Curia romana varata nel 1908, al governo delle diocesi e alla nomina dei vescovi).

La decisione del Papa veniva incontro ad una proposta avanzata dal Beato Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905) nel 1905. Il Vescovo piacentino, rientrato in Italia da un lungo viaggio in Brasile e Argentina, aveva sentito l’esigenza di un apposito strumento centrale perché, come aveva lamentato nel suo rapporto a Papa Sarto, aveva constato sia la pessima qualità del clero inviato ad assistere gli emigranti, sia l’equivoca coloritura politica che esso aveva assunto, quella coloritura ben visibile oggi e che, sempre più, rende sconcertati e allarmati i fedeli cattolici del nostro tempo.

La Chiesa del XXI secolo, che guarda con attenzione ai giovani non per insegnare loro il patrimonio passato, ma per catturarli alle dominanti ideologie relativiste attuali, chiede di essere sottomessa all’altrui cultura e religione ed è protesa alla rivoluzione di mentalità che prescinde dalla dottrina cattolica bimillenaria. Ha detto ancora il Pontefice il 19 aprile: «Troppe volte non vi abbiamo accolto! Perdonate la chiusura e l’indifferenza delle nostre società che temono il cambiamento di vita e di mentalità che la vostra presenza richiede. Trattati come un peso, un problema, un costo, siete invece un dono. Siete la testimonianza di come il nostro Dio clemente e misericordioso sa trasformare il male e l’ingiustizia di cui soffrite in un bene per tutti. Perché ognuno di voi può essere un ponte che unisce popoli lontani, che rende possibile l’incontro tra culture e religioni diverse, una via per riscoprire la nostra comune umanità». Un’umanità insidiata dall’Islam, quell’Islam che non ha mai rinnegato le proprie radici e le proprie tradizioni.

Come rispondere, allora, ai crescenti interrogativi di chi ancora crede nell’ufficio della Chiesa? Due feste agostane, da poco trascorse, sono le risposte concrete a perplessità e domande: il Beato Marco D’Aviano (13 agosto) e i Santi Martiri di Otranto (14 agosto).

Figura studiata in Austria e nell’Europa dell’Est, il beato Marco D’Aviano (1631-1699), sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, fu predicatore, taumaturgo, uomo di grande carità verso i poveri e i malati, e sollecitò in maniera mirabile i potenti della terra ad anteporre la Fede ad ogni altra impresa o interesse. I musulmani, mossi in quell’epoca dai loro ciclici assalti all’Europa, giunsero fino a Vienna e il loro obiettivo era, allora come oggi, quello di arrivare fino a Roma. Papa Innocenzo XI, di fronte al pericolo della caduta della città austriaca in mano agli islamici, forti di un esercito di 150.000 turchi e giannizzeri, comandati da Mustafà il Nero (generalissimo di Maometto IV), incaricò Padre Marco d’Aviano di riappacificare i comandanti degli eserciti cristiani in disaccordo fra di loro. Il suo operato fu fondamentale per riportare unità e forza all’alleanza, capitanata dal Re di Polonia, Giovanni Sobieski, dai turchi definito il Leone di Lehistan.

Il santo cappuccino, pronto al martirio, incitò i soldati a chiedere l’aiuto divino e così fecero. L’intervento celeste arrivò e il 12 settembre 1683 i turchi furono sconfitti, mentre Vienna fu liberata dall’assedio. Padre Marco, chiamato il «Salvatore dell’Europa», proseguì il mandato conferitogli da Innocenzo XI continuando a spingere, suggerire, riunire ed organizzare i cristiani, che vinsero le battaglie di Budapest (1684-1686), Neuhäusel (1685), Mohacz (1687), Belgrado (1688) fino a che venne sancita la pace di Karlowitz (1689).

Lo stesso coraggio di Padre Marco lo ebbe il Vescovo di Galantina (Lecce), Stefano Pendinelli (1403-1480), morto martire per la Fede. Come narra Antonio De Ferrariis nell’opera De situ Japigiae (zona più a Sud della Puglia), scritta fra il 1510 e il 1511 – si tratta della più antica guida del Salento (pubblicata la prima volta a Basilea nel 1553) – : «l’arcivescovo Stefano, dopo che per tutto il giorno precedente aveva rincuorato la popolazione col sacramento dell’eucarestia, salì dalla cripta della cattedrale nel coro e lì, martire della fede in Cristo ed insignito dai paramenti sacerdotali, fu sgozzato sul suo seggio dai Turchi, quando vi fecero irruzione».

Era l’A.D. 1480: da neppure trent’anni, con l’occupazione di Costantinopoli da parte del sultano turco Maometto II, era caduto l’Impero Romano d’Oriente. Papa Sisto IV, preoccupato dalle mire espansionistiche musulmane, si prodigò per formare una lega cristiana di difesa, ma senza successo a motivo sia dell’inimicizia, a causa del controllo sul Mediterraneo, che correva fra la Serenissima Repubblica di Venezia e il Regno di Napoli, sia perché i potenti dell’epoca (ad esclusione del Pontefice) trascurarono il pericolo islamico. Il disegno ottomano era, come sempre, ambizioso: occupazione di Otranto, conquista del Sud d’Italia, raggiungimento della Francia per il ricongiungimento con i musulmani di Spagna.

Il 28 luglio 1480 si presentò, proprio sotto le mura di Otranto, la flotta navale turca del sultano dell’Impero ottomano Maometto II, formata da 90 galee, 40 galeotte e altre navi, per un totale di circa 150 imbarcazioni e 18.000 soldati. La città di soli 6000 abitanti resistette valorosamente, ma il 29 luglio venne conquistata. Seguì un vero e proprio massacro: tutti i maschi di oltre quindici anni furono uccisi, mentre le donne e i bambini vennero ridotti in schiavitù. La storiografia registra 12.000 vittime. Vani furono i primi tentativi di riconquista, organizzati tra l’agosto e l’ottobre del 1480 da Re Ferdinando di Napoli, il quale chiamò poi in soccorso il figlio Alfonso d’Aragona. Composta una flotta, con l’aiuto del cugino, Ferdinando il Cattolico, e del Regno di Sicilia, Otranto fu riconquistata dopo tredici mesi.

Orrenda fu la brutalità perpetrata dai musulmani nella cattedrale di Otranto, dove i superstiti e il clero si erano rifugiati per pregare con l’Arcivescovo Pendinelli. Gedik Ahmet Pascià ordinò loro di rinnegare la fede cristiana, ma ricevendone un netto diniego, irruppe con i suoi uomini nel sacro luogo e li catturò, uccidendoli tutti e riducendo la cattedrale di Otranto, per spregio, a stalla per i cavalli. L’Arcivescovo, che aveva incitato i fedeli a rivolgersi a Dio in punto di morte, fu sciabolato dagli assassini e fatto a pezzi con le scimitarre, mentre il suo capo mozzato venne infilzato su una picca e portato per le vie della città. Il comandante della guarnigione di Otranto, Francesco Largo, venne invece segato vivo.

Il 14 agosto Gedik Ahmet Pascià fece legare i superstiti e li fece trascinare sul vicino colle della Minerva, dove ne fece decapitare almeno 800, costringendo i parenti ad assistere alle esecuzioni. Il primo a essere decapitato fu l’eroico sarto Antonio Pezzulla, detto Il Primaldo. La tradizione tramanda che il suo corpo, dopo la decapitazione, restò ritto in piedi fino all’ultimo otrantino martirizzato, a dispetto degli sforzi dei carnefici per buttarlo a terra. Le cronache riportano che, durante quel barbaro massacro, il turco Bersabei si convertì nel vedere il modo con cui morivano quegli eroi per la loro fede, pertanto venne impalato dai suoi stessi compagni d’arme.

Fra gli 813 martiri – i cui corpi, il 13 ottobre 1481, furono trovati incorrotti – si ricorda anche Macario Nachira, colto monaco basiliano. Le reliquie dei santi martiri sono venerate in molti luoghi della Puglia (in particolare nel Salento), a Napoli, a Venezia, a Milano, a Tours, in Francia, e in Spagna. Il loro sacrificio, riconosciuto tale dallo stesso Papa Francesco con la canonizzazione del 12 maggio 2013, non fa parte soltanto della Storia, ma della Chiesa tutta, sempre viva nella sua eternità di insegnamenti, di esempi, di moniti.

Cristina Siccardi

Fonte: Corrispondenza Romana

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