Umberto II

Sono trascorsi 30 anni dalla scomparsa dell’ultimo Re d’Italia, ma di questo anniversario nessuno parla: tutti tacciono su una ferita mai rimarginata. Umberto II, figura integra, è un personaggio scomodo per molti.

Dopo i brogli elettorali del referendum istituzionale del 1946 (al riguardo esiste una nutrita bibliografia storiografica), le truppe polacche del generale Władysław Anders, che ebbe un ruolo fondamentale nella liberazione dell’Italia dai nazisti, offrirono la loro collaborazione, così come l’Esercito regio e l’arma dei Carabinieri, ad Umberto di Savoia, che «come molti sovrani», sta scritto nel bellissimo libro di Luciano Garibaldi Gli eroi di Montecassino. Storia dei polacchi che liberarono l’Italia (Oscar Mondadori), «ben diversi da tanti presidenti e dittatori, non volle però versare il sangue del suo popolo per conservare il trono. Finirono entrambi la loro vita in esilio, ma la loro coscienza era tranquilla». Umberto II, scegliendo l’esilio, risparmiò all’Italia una seconda guerra civile. Pio XII dimostrò la sua benevolenza ad entrambi: ad Umberto II, espropriato dallo Stato italiano di tutti i suoi beni, donò una somma di denaro per i primi duri tempi di Cascais; mentre ricevette in una commossa udienza il generale Anders, al quale, già nel 1944, aveva consegnato la medaglia di Defensor Civitatis.

L’aereo che condusse in esilio Umberto II decollò alle 16,10 del 13 giugno 1946, mentre dalla torre del Quirinale un graduato ammainava il tricolore con lo scudo sabaudo… Ben altro futuro si prospettava per l’erede al trono di Casa Savoia quando cento e uno salve di artiglieria, nel secolare parco del castello di Racconigi (CN), salutarono il Principe nel giorno della sua nascita: era il 15 settembre 1904. La giornalista Matilde Serao scriveva sulle colonne de «Il Mattino»: «Che chiederemo a Dio, che chiederemo alla Provvidenza, per te, per adornare la tua vita?… È vero, il mondo ha sete di pace, ma la pace non basta né all’uomo, né alla società, perché l’anima umana si elevi e si esalti in volo d’aquila. O piccolo Principe, il mondo ha sete di bene: il mondo ha orrore del male possa tu, o neonato di Elena e di Vittorio, o futuro Re d’Italia, diventare forte, ma restare buono; diventare un grande per te, per la tua nazione, per i tuoi tempi, ma restar buono. Rimanga in te, Principe, l’orrore del male; rimanga in te la innata invincibile incapacità del male: rimanga in te, o Re dei tempi novissimi, la savia innocenza del fanciullo». Umberto rimase «buono» e con l’«orrore del male», nonostante le guerre mondiali, i totalitarismi, la scristianizzazione dell’Europa, la solitudine della sua drammatica esistenza.

La cerimonia pubblica del battesimo ebbe luogo al Quirinale di Roma e officiò monsignor Giuseppe Beccaria. La Santa Sede era rappresentata da don Ferrarini, invitato dai sovrani e al quale venne data una «dispensa speciale» da san Pio X (1835-1914). Formalmente la guerra fredda fra i Savoia e la Chiesa proseguiva dal 1870, con la presa di Roma. Ma Papa Sarto, alle elezioni politiche del 6 novembre 1904, aveva permesso che i cattolici andassero alle urne, allentando il rigido divieto del non expedit lanciato da Pio IX nel 1874. D’altro canto, per non urtare la Santa Sede, Umberto divenne Principe di Piemonte e non di Roma.

Egli, nella quiete di Villa Savoia, dove i reali si erano trasferiti per essere distanti dal Quirinale (loro precedente residenza), non si trovò a vivere in una corte, ma in un focolare domestico, fra la gioia e la protezione della materna regina Elena. Tuttavia il clima mutò allorquando iniziò gli studi: Vittorio Emanuele III (che stabilì sempre un rapporto di soggezione e sudditanza nei confronti del figlio, la cui simpatia e prestanza fisica creavano fra loro un enorme distacco) decise che occorreva formarlo militarmente: disciplina, caserma, accademia, esercitazioni; fu così posto sotto la direzione dell’ammiraglio Bonaldi, il quale piegò il suo spontaneismo ad un ferreo autocontrollo, che divenne il filo conduttore di tutta la sua vita. Umberto non andrà al funerale di Attilio Bonaldi: un segnale importante della sua personalità, che non fu mai ipocrita, neppure per interesse della propria immagine pubblica; dissimulatore non riuscirà neppure ad esserlo nella vita coniugale.

A Torino visse i suoi anni spensierati dal 1924 al 1929. Amava gli sport, il ballo, le conversazioni, la compagnia di amici e amiche in un giovane clima goliardico… Ma venne richiamato all’ordine dai suoi doveri, inoltre era giunto il tempo si sposarsi. Il matrimonio (8 gennaio 1930) fra Umberto e la principessa belga Maria José, assai fiera delle simpatie socialiste dei genitori, fu combinato a tavolino. Due culture differenti e opposte quella del Belgio e quella italiana; basti osservare l’educazione che impartirono ai figli le due regine madri: Elena, a differenza di Elisabetta, li crebbe nella Fede, nel senso del dovere e nella coerenza cristiana  (oltre ad Umberto II pensiamo a Mafalda, che sarà assassinata nel lager di Buchenwald, e Giovanna, regina di Bulgaria e terziaria francescana).

Umberto manifestava la sua religiosità apertamente. Peccato ed espiazione gli erano sempre dinnanzi. Significativa, negli anni torinesi, la sua Messa solitaria alle sette di mattina della domenica, al Cottolengo. Da ricordare anche le sue partecipazioni alle processioni religiose, dove indossava il saio, e i pellegrinaggi a Santiago di Compostela, a Nazaret, a Betlemme…

Mussolini lo detestava, lo temeva per il consenso che mieteva intorno a sé, per tale ragione l’Ovra (polizia segreta del Regime) aveva gli occhi puntati su di lui e seguiva tutti i suoi spostamenti. Nacquero così calunnie e pettegolezzi infamanti sull’erede al trono.

Arriva l’8 settembre del 1943: Umberto è contrario a lasciare Roma per raggiungere il Sud, tuttavia Vittorio Emanuele III non transige. Poi l’abdicazione… ma la Monarchia non piace né a De Gasperi, né agli Stati Uniti, tantomeno ai comunisti, che si sono “distinti” nella  lotta partigiana e perciò hanno parecchia voce in capitolo, tanto che l’operazione “brogli” sul referendum istituzionale viene manovrata da Palmiro Togliatti in persona, che interviene direttamente per ritardare il rientro in Italia dei reduci dai campi di prigionia russi. Non possono votare neppure coloro che si trovavano ancora nei campi di prigionia o di internamento negli altri Paesi. Inoltre sono escluse dal voto la provincia di Bolzano con Bolzano, la Venezia Giulia con Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Zara, zone controllate o dall’autorità militare alleata o dalla Jugoslavia di Tito. Insomma, si contano 2 milioni di voti sottratti alla Monarchia.

Il regno di Umberto II durò dal 9 maggio al 2 giugno, 23 giorni appena. L’esilio 37 anni. Trovò una sistemazione a Cascais, sulla Costa del Sol, a circa 30 chilometri da Lisbona. Si faceva chiamare Conte di Sarre. Non andava mai nei ristoranti eleganti, cercava trattorie e pizzerie. Scelse un ritirato stile di vita, dove trovava spazio una profonda vita di Fede praticata, nella continua ricerca della modestia, della preghiera, della mortificazione. Non si considerava ex Re d’Italia, ma un esiliato e viaggiava con un passaporto da apolide, perciò, ad ogni frontiera, veniva invitato al posto di polizia per accertamenti.

Incarnò il suo ruolo secondo uno stile personale, improntato alla riservatezza, alla discrezione, ad un codice etico e religioso di rigorosa severità interiore e di grande dignità. Il Presidente della Repubblica, l’ex partigiano Sandro Pertini, gli fece sperare che un giorno sarebbe tornato in Italia e che sarebbe morto nel proprio Paese… una beffa.

Il Re tornò a parlare agli italiani in un’intervista televisiva del 1976. Nessun accento polemico, ricordò soltanto che Carlo Alberto rimase in esilio tre mesi, «io trent’anni», un nodo gli serrò la gola e con la mano fece cenno di non voler aggiungere altro. Profondamente addolorato dai mondani stili di vita dei figli e della moglie, si spense il 18 marzo del 1983, con la parola Italia sulle labbra, all’età di 79 anni nell’Ospedale Cantonale di Ginevra. Il 24 marzo la sua salma trovò dimora nell’Abbazia di Hautecombe, in Savoia. Per le sue esequie erano presenti diecimila persone, ma neppure un ministro italiano presenziò e la RAI non trasmise la diretta televisiva; l’unico segno di lutto fu portato dai calciatori della Juventus per volontà di Giovanni Agnelli.

Umberto II ha voluto che nella propria bara fosse riposto il sigillo reale, un grande timbro che si trasmette di generazione in generazione quale simbolo della legittimità nella linea dinastica; così facendo non passò nessuna consegna ai suoi eredi.

Umberto II ebbe una grande devozione per il Sommo Pontefice. Più episodi si possono recuperare per suffragare tale affermazione, che vanno dalla sua visita, appena nominato Luogotenente (8 giugno 1944), a Pio XII, per rendergli omaggio; al suo commovente abbraccio con Giovanni Paolo II il 14 maggio del 1982 a Fatima; alla volontà testamentaria di donare la Sacra Sindone al Papa.

Fra le carte di Re Umberto II, nella sua scrivania di Villa Italia a Cascais, si trovò uno scritto di suo pugno, che riportava un passo della lettera di san Paolo ai Corinzi (1 Cor 4, 3-4), ricopiata in latino e tradotta in italiano: «Mihi autem pro minimo est ut a vobis iudicer (aut ab humano die). Sed neque meipsum iudico. Nihil enim mihi conscius sum: sed non in hoc iusticatus sum; qui autem iudicat me, Dominus est», «Poco importa a me d’essere giudicato da voi (o da un tribunale di uomini)… né mi giudico da me stesso, poiché non ho coscienza di aver commesso alcunché; ma non per questo sono giustificato: mio giudice è il Signore!».

Cristina Siccardi

Fonte: Il Timone, novembre 2013

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