L’addio al principe di Napoli e la storia di Casa Savoia

 

 

Torino, ex capitale del Regno d’Italia, sabato 10 febbraio ha dato l’addio, sotto una pioggia battente, al figlio dell’ultimo Re d’Italia, Vittorio Emanuele di Savoia, principe di Napoli, scomparso a 86 anni sabato 3 febbraio a Ginevra. Le esequie solenni si sono svolte nel Duomo della città che custodisce la Regina delle reliquie, la Sacra Sindone, donata da Re Umberto II a Santa Madre Chiesa.

«Ecco da dove deriva per la Casa Savoia il dono avuto della Sovranità, essa è basata e sostenuta dalla fede e dalla religione», così ha dichiarato, nel corso dell’omelia, S.E.R. Monsignor Paolo de Nicolò, Gran Priore degli Ordini Dinastici della Real Casa, aggiungendo: «Vedere la partecipazione qui di autorità, di case regnanti e già regnanti d’Europa, la partecipazione commossa dei membri e degli ordini dinastici della Real casa di Savoia, delle Guardie d’onore del Pantheon, di tante associazioni monarchiche, di amici provenienti dalle più disparate parti del mondo e di tanti italiani accorsi in questo tempio sacro sono la testimonianza del bene concreto che il principe Vittorio Emanuele ha saputo donare a quanti lo hanno conosciuto». Infatti, a dispetto della cattiva stampa che sempre ha perseguitato la vita di Vittorio Emanuele, egli si è dedicato molto alle opere di bene con spirito caritativo.

Tuttavia, non è stato tanto Vittorio Emanuele ad essere mediaticamente infangato nella sua esistenza e in questi giorni luttuosi, quanto tutto ciò che egli ha rappresentato e che Casa Savoia continua a rappresentare, ovvero i principi monarchici: Dio, patria, famiglia, valori in odio alle ideologie secolarizzate, corruttrici delle coscienze, che pervertono sempre più la società occidentale scristianizzata. I mille anni di storia della dinastia sabauda sono un vero e proprio spettro per il potere di sinistra, che ha ripudiato gran parte della gloriosa Storia sabauda, depennandola dai libri e dal patrimonio culturale, salvo occuparsi, in questi anni del turismo di massa, delle Residenze dei Savoia, divenute fondamentali per il circuito commerciale e internazionale, dunque ghiotto boccone di incassi (ricordiamoci in che condizioni era ridotta la Reggia di Venaria alcuni anni fa… abbandonata alla fatiscenza per decenni). Così, abbiamo assistito agli osanna per la morte e le esequie di Silvio Berlusconi nel giugno 2023, indegnamente perseguitato da una certa magistratura e da un certo bacino giornalistico; mentre per Vittorio Emanuele, escluse alcune eccezioni, si è assistito a talk show televisivi e letto articoli pregiudiziali, meschini e di pessimo gusto.

Il drappo reale posato sulla bara di Vittorio Emanuele è stato posto da quattro Cavalieri Collari dell’Annunziata membri della famiglia: Aimone di Savoia Aosta, il conte Agostino Guarienti di Brenzone, il principe Dimitri di Yugoslavia e il principe Serge di Yugoslavia.

Il feretro di Vittorio Emanuele, entrato nella cattedrale di Torino sulle note dell’Inno Sardo, ha fatto ingresso avvolto dal drappo rosso con lo stemma di Casa Savoia e sotto la bandiera del Regno d’Italia, seguito poi da un cuscino con il Collare dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata. La bara, poi adagiata su un tappeto e avvolta in una bandiera con lo stemma di Casa Savoia, è stata accompagnata dal figlio Emanuele Filiberto che ha raggiunto, sul lato sinistro dell’altare in corrispondenza della Cappella della Sacra Sindone, sua madre, la vedova Marina Doria, la moglie Clotilde Courau e le figlie Vittoria e Luisa, nonché la sorella maggiore del Principe scomparso, Maria Pia di Savoia, accompagnata dai figli, i principi di Jugoslavia.

Particolarmente toccante è stato l’abbraccio fra Emanuele Filiberto ed Aimone di Savoia Aosta; la presenza di quest’ultimo, giunto in chiesa un’ora prima del previsto, è stata letta da molti come un gesto di pacificazione fra la nuova generazione di esponenti della Famiglia reale a causa delle note discordie fra i loro padri, Vittorio Emanuele ed Amedeo, per il ruolo di capo di Casa Savoia.

Accompagnata dal Coro Francesco Veniero della chiesa Santuario Madonna del Pilone di Torino, la funzione funebre non ha previsto né discorsi, né applausi, né saluti: ha imperato il religioso silenzio dovuto a Dio, alle preghiere di suffragio e al lutto. Il Duomo è stato decorato con composizioni floreali, richiamanti colori (bianco, rosso, blu Savoia) e simboli della dinastia, mentre all’esterno della cattedrale sono stati allestiti due maxi schermi. Sono giunti in molti per onorare la memoria storica e l’affetto verso Casa Savoia, come era già avvenuto alla camera ardente allestita nella chiesa di Sant’Uberto alla Reggia di Venaria, dove si è presentato anche il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, il quale ha sostato qualche istante davanti al feretro, ha salutato la famiglia e ha abbracciato Emanuele Filiberto.

Casa Savoia, oltre a vantare il maggior numero, fra tutte le Corti europee, di beati e di morti avvenute in concetto di santità, si contraddistingue per il grande rapporto unitivo, basato sulla concordia e la fattualità costruttiva, che si è sempre stabilito fra sovrani e popolo. Oltre alle grandi figure di Umberto Biancamano, di Adelaide di Susa e Torino, dei Conti Rosso e Verde, di Giovanna Imperatrice di Bisanzio (Anna Paleologina), Emanuele Filiberto (Testa di Ferro), Vittorio Amedeo II, Eugenio di Savoia Soissons… spiccano anche quelle più recenti, come l’Eroe dell’Amba Alagi, il duca Amedeo di Savoia, oppure la straordinaria Regina Elena, che papa Pio XI volle insignirla della «Rosa d’Oro della Cristianità» nel 1937, ed i figli, Giovanna, che ebbe il consorte re Boris III, assassinato dal regime staliniano in Bulgaria; Mafalda, che venne deportata ad Auschwitz e lì trovò la morte per dissanguamento (condannata a morte per volere di Hitler), ed Umberto, di cui ha scritto Francesco Perfetti: «[…] con la decisione di lasciare il paese dopo il referendum istituzionale, evitò una nuova guerra civile. La decisione fu esclusivamente sua. Quando, prima che la Corte di Cassazione proclamasse la vittoria della Repubblica, il consiglio dei ministri la proclamò di fatto con una forzatura giuridica, Umberto rifiutò tutte le alternative proposte dai collaboratori e consiglieri – da quella minima di far finta di nulla a quella massima di far arrestate tutto il governo accusato di “colpo di stato” – e decise di partire per l’esilio lanciando un proclama di protesta contro l’“atto rivoluzionario”» (F. Perfetti, Umberto di Savoia, l’altra faccia del Re di maggio, in Il Tempo, 4 marzo 2015). La storiografia avulsa dalle manipolazioni ideologiche conosce bene i fatti. Le posizioni chiave per l’abbattimento della Corona furono quelle occupate dal comunista Palmiro Togliatti e dal socialista Giuseppe Romita (rispettivamente ministro della Giustizia e ministro dell’Interno), che ordirono un piano che andò a buon fine, tanto da eliminare almeno due milioni di schede a favore dell’istituzione monarchica e falsificarne altre.

Scriveva l’ambasciatore argentino Juan J. Cooke il 21 marzo 1946: «Una Repubblica turbolenta con maggioranza socialista e comunista, realizzandosi in Roma, costituirebbe una minaccia costante per la cristianità rappresentata dalla autorità spirituale del Papa. […] Un motivo di dubbio sorge a proposito dei 371.000 prigionieri tuttora all’estero e che non potranno votare; e d’altra parte il fatto che 300/400.000 cittadini dell’Alto Adige non potranno farlo poiché non sono preparate le liste elettorali, così come le popolazioni della Venezia Giulia, che sono nell’impossibilità di andare alle urne» (C. Siccardi, Maria José – Umberto di Savoia. Gli ultimi Sovrani d’Italia, Paoline Editoriale Libri, Milano 2004, pp. 263-264).

Umberto II era profondamente convinto che «Casa Savoia non può, e non vuole regnare senza il consenso del popolo»; i repubblicani, invece, si adoperavano alacremente per governare proprio senza il consenso all’unisono degli italiani. Nel 2016 parlò il figlio del brigadiere dell’Arma dei Carabinieri che fu testimone dei brogli elettorali del referendum istituzionale: «Pacchi su pacchi di schede: “Così grossi, raccontava mio padre, che ci si potevano infilare le braccia”. Tutte schede già votate, e tutte con la croce sullo stesso segno: a sinistra, sull’Italia turrita che simboleggiava la Repubblica, contro la monarchia rappresentata dallo scudo dei Savoia. Il giovane brigadiere Tommaso Beltotto vide quelle schede, negli scantinati del ministero degli Interni» (L. Fazzo, “Le schede truccate del referendum del ‘46, mio padre vide tutto”, in Il Giornale, 12 dicembre 2016). Era la notte del 4 giugno 1946 e i risultati del referendum, non ancora annunciati, già si conoscevano nei palazzi romani: una vittoria a scapito della democrazia tanto declamata. Fu così che arrivò per l’Italia la «prima Repubblica»…

 

Fonte: Corrispondenza Romana – 14 febbraio 2024

 

 

Torna in alto