Scriptorium – Recensioni. Rubrica quindicinale

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10 febbraio, Giornata del Ricordo. Memoria del Beato Don Francesco Bonifacio, vittima della violenza comunista in odium fidei.

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«Chi non ha il coraggio di morire per la propria fede è  indegno di professarla», scrisse in una lettera il martire don Francesco Bonifacio nel 1946, assassinato dalle   guardie comuniste e poi beatificato il 4 ottobre 2008 nella cattedrale di San Giusto a Trieste. Ieri, per celebrare il 10 febbraio, Giornata del Ricordo dell’esodo e delle foibe, (legge istitutiva approvata nel 2004), al Senato abbiamo sentito, attraverso la diretta di Rai 2, il Sindaco di Gorizia, Rodolfo Ziberna, già Presidente nazionale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, denunciare direttamente il Partico Comunista di Palmiro Togliatti e i suoi partigiani, e biasimare il colpevole silenzio della cosiddetta Prima Repubblica.

La tragedia dei massacri delle foibe, ovvero gli eccidi ai danni della popolazione italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia, avvenne durante la Seconda guerra mondiale e nell’immediato secondo dopoguerra, ad opera dei Comitati popolari di liberazione della Jugoslavia, governata dal dittatore comunista Tito.  Fu così che al termine della seconda guerra mondiale sotto la spinta della pulizia etnica delle milizie jugoslave e lo spettro delle foibe migliaia e migliaia di italiani fuggirono dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, ne derivò un esodo di 350.000 persone di ogni ceto sociale e la morte violenta di migliaia di innocenti nelle foibe, i grandi inghiottitoi carsici.

Fra la moltitudine di innocenti trucidati, ci furono anche molti sacerdoti, fra i quali  don Francesco Bonifacio, nato a Pirano il 7 settembre 1912 da Giovanni Bonifacio e Luigia Busdon. È secondogenito di sette figli. Famiglia profondamente cattolica la sua, la cui fede gravitava intorno alla chiesa di San Francesco, officiata dai frati francescani conventuali. Chierichetto costante ed esemplare, durante le vacanze estive frequenta l’oratorio San Domenico Savio dei Salesiani e il circolo San Giorgio, prima come aspirante e poi come effettivo di Azione Cattolica. Comunione quotidiana e confessione settimanale battono il tempo della sua esistenza, che ben presto si vota al sacerdozio. Incoraggiato dal parroco, monsignor Giorgio Maraspin, entra nel Seminario interdiocesano minore di Capodistria nel 1924, dove frequenta il ginnasio e il liceo classico. Nel 1932 frequenta il Seminario teologico centrale di Gorizia. Trascorre poi parte degli ultimi anni del quadriennio teologico a Capodistria, come prefetto di disciplina e come punto di riferimento di tanti giovani.

Monsignor Carlo Magotti, arcivescovo di Gorizia e amministratore apostolico di Trieste e Capodistria, gli conferisce il 27 dicembre 1936, nella cattedrale di San Giusto, l’ordine sacerdotale. Il 3 gennaio 1937, percorsa Carrara di Raspo addobbata a festa e invasa dalla popolazione, si reca nel duomo di San Giorgio di Pirano dove celebra la sua prima messa solenne. Il suo primo breve incarico pastorale si svolge nella stessa Pirano. Monsignor Margotti il 1° aprile 1937 lo nomina Sussidiario capitolare, Vicario corale e cooperatore a Cittanova. Il suo impegno pastorale si svolge nella chiesa, nell’insegnamento del catechismo, nella frequentazione con i giovani (Azione cattolica giovanile, filodrammatica, attività ricreative) e nella carità verso pescatori, agricoltori, malati, poveri. Due anni dopo viene trasferito perché nominato da Monsignor Antonio Santin, Vescovo di Trieste e Capodistria, cappellano di Villa Gardossi. La curazia conta circa 1300 anime, è costituita da tante piccole frazioni o casolari sparsi su di un territorio collinare tra Buie e Grisignana, disteso a semicerchio sui tre crinali che dal monte Cavruie degradano fino a Baredine, Punta e Luzzari.

A piedi e talvolta in bicicletta, ogni pomeriggio, raggiunge le frazioni più lontane e i casolari più remoti. Insegna la dottrina a gruppi di bambini nei luoghi più isolati, nei cortili, nelle aie, nelle cucine coloniche. Visita le case della gente povera e/o malata, che soccorre con tutti i mezzi che può. La sua presenza, forte, calda, paterna, è senza risparmio.

La Seconda guerra mondiale fa sentire la sua voce di morte soltanto nel 1943 in Istira. Dopo l’insurrezione popolare, caotica e sanguinosa, seguita all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo la tragica e violenta occupazione dell’Istria da parte dei tedeschi, Villa Gardossi, con le sue case sparse sulle colline boscose, diventa un rifugio ideale per i partigiani comunisti e, dunque, teatro di scontri. La popolazione civile si trova stretta fra il movimento popolare di liberazione slavo (O.F. cioè Osvobodilna Fronta) da un alto e i tedeschi con le forze collaborazioniste dall’altro (piccole guarnigioni locali e la cosiddetta «stazione X» a Buie). Don Francesco non si scompone e si presta a soccorrere sia italiani che slavi, cerca di mediare, di intervenire per le esecuzioni sommarie, per dare degna sepoltura cristiana alle vittime dell’odio e delle vendette più feroci, per difendere le case e le proprietà dai saccheggi e dalla distruzione, per ospitare, a rischio della vita, fuggiaschi e sbandati.

Termina la guerra e fanno ritorno i superstiti dei campi di prigionia e dei vari fronti. Ma qui no, non è finito nulla, inizia l’inimmaginabile: l’esilio forzato e la possibilità di essere infoibati dai comunisti di Tito e dagli amici suoi in Italia. La peggiore nemica è la fede cattolica, la chiesa con i suoi sacerdoti, perciò s’innesca la persecuzione e le limitazioni alla pratica religiosa. Si giunge ad aggredire e ferire il Vescovo, Monsignor Santin, altri sacerdoti, mentre Miro Bulešić viene ucciso a Lanischie nel 1947. Di lui è in corso la causa di beatificazione, promossa dalla diocesi di Parenzo-Pola.

Con l’occupazione slavo-titina anche la vita di Villa Gardossi muta radicalmente. Le autorità popolari costituiscono comitati popolari, organizzano conferenze e comizi ideologicamente caratterizzati, intimidiscono quanti si dimostrano circospetti o incerti rispetto alla nuova realtà: controllano la società paesana attraverso una rete di informatori. Don Francesco Bonifacio è sotto il mirino e cercano vanamente di coinvolgerlo nell’appoggio alle liste di proscrizione dei presunti «criminali fascisti» e ai disegni annessionistici jugoslavi. Intanto lo ostacolano sempre più nel libero esercizio del ministero sacerdotale. Tuttavia don Francesco non si scoraggia: organizza gli incontri catechetici di casa in casa e la sua opera risulta così efficace, da impedire alla gioventù del paese di seguire la propaganda ateistica e le iniziative del regime, diventando così un chiaro nemico da abbattere perché ostacolo alla diffusione dell’ideologia comunista. Di lui si parla spesso nelle riunioni del partito comunista e fra gli attivisti. Così l’OZNA del Buiese decide di arrestare lui e i parroci di Grisignana e di Villanova del Quieto. Il giovane sacerdote sa a quale pericolo va incontro, lo sapeva fin dal principio dell’occupazione, ma non si muove, se la volontà di Dio è quella di condurlo al martirio, allora martirio sia. La Fede, oltre a tutto il resto, contempla anche il martirio.

Arriva l’11 settembre 1946; dopo un breve riposo pomeridiano, s’incammina per la «strada regia». Alle sedici si ferma a Peroi per ordinare la legna per casa e poi prosegue verso Grisignana per la confessione con Don Giuseppe Rocco, con il quale rimane alcune ore: gli parla della difficoltà della sua curazia, della necessità di restare fedele al suo ministero. Dopo una breve sosta in chiesa, don Rocco propone al confratello di pernottare a Grisignana; al suo diniego lo accompagna fino al cimitero di San Vito. Qui, separandosi, vedono alcune guardie popolari che escono dal cimitero e don Rocco gli raccomanda di raggiungere al più presto casa. Così sceglie la strada più breve per Villa Gardossi e giunge a Radani. Qui, come confermato da parecchi testimoni, viene avvicinato e fermato da due o quattro guardie popolari o soldati della polizia jugoslava. Poi, dopo un parlare concitato, si allontanano e spariscono nel bosco. Alcuni paesani che tentano di avvicinarsi al gruppetto vengono cacciati via e minacciati. Le guardie che arrestano don Francesco sono conosciute e riconosciute dai paesani. Secondo alcune fonti, egli venne spogliato, deriso, preso a pugni e calci, lapidato e finito con due coltellate per esser e poi infoibato.

Il 12 settembre mattina la notizia del fermo si diffonde rapidamente. Il fratello Giovanni, insieme a un amico, si reca prima al comando della polizia di Grisignana e poi a Peroi dalla sorella di una delle guardie riconosciute dai testimoni, ma non ottiene informazioni certe. Il 14 settembre il fratello Giovanni interpella il comando dell’OZNA di Buie senza alcun risultato, ma venendo arrestato per falso e trattenuto in carcere per tre giorni. La mamma Luigia rimane ancora un anno a Villa Gardossi, continuando le ricerche del figlio, anche al tribunale del popolo di Albona, ma senza risultato. Poi, con gli altri familiari, si trasferisce a Trieste. Terrore e intimidazione governano nella zone comuniste e nessuno parla più di don Francesco Bonifacio. Ancora negli anni Settanta è pericoloso occuparsi del caso Bonifacio.

“Don Francesco scompare l’11 settembre 1946 e della sua morte, sicuramente violenta, non si conosce nessun particolare certo, ma solo notizie parziali, reticenti o contraddittorie. Egli sarebbe stato ucciso la notte stessa dell’arresto, attraverso modalità incerte. Anche il destino del cadavere sarebbe incerto: cremazione, infoibamento (qualche voragine della zona, foiba di Martines a Grisignana, foiba di Pisino), sepoltura”, scrive Sergio Galimberti (Cfr. Don Francesco Bonifacio presbitero e testimone di Cristo, Trieste 1998; S. Galimberti – L. Parentin, Rapporto della commissione dei periti storici su don Francesco Bonifacio, Trieste 29 ottobre 1997).

Don Francesco muore perché sacerdote, paga l’odio a Dio e alla chiesa e muore esclusivamente in odium fidei.

Fra i sacerdoti uccisi e spesso infoibati dai comunisti vanno ricordati: don Alojzij Obit del Collio (scomparso nel gennaio 1944), don Lado Piščanc e don Ludvik Sluga di Circhina (uccisi con altri 13 parrocchiani sloveni nel febbraio del 1944), don Anton Pisk di Tolmino (scomparso e probabilmente infoibato nell’ottobre 1944), don Filip Terčelj di Aidussina, sequestrato dalla polizia segreta il 7 gennaio 1946 e successivamente scomparso, e don Izidor Zavadlav di Vertoiba, arrestato e fucilato il 15 settembre 1946.

Nella cripta del Santuario Maria Madre e Regina di Monte Grisa (Trieste), dove si venera l’immagine di Nostra Signora di Fatima, l’epigrafe di una lapide recita: “Presso questo altare che Pirano / erige in onore del suo patrono, / arda come fiamma / la memoria del suo giovane sacerdote / Francesco Bonifacio / trucidato l’11 settembre 1946 / in odio a Dio e al suo sacerdozio santo”.

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